La
Comunità Economica Europea (CEE), altrimenti detta anche Mercato Europeo Comune
(MEC), ebbe i suoi natali con i Trattati di Roma nel 1957. Con tale
organizzazione, cui sin dall’inizio aderirono i sei paesi fondatori, Francia,
Italia Germania, Belgio, Olanda e Lussemburgo, si volle creare un’area di
libero scambio di merci, servizi, persone e movimenti finanziari.
Con
questa nuova creatura si volle mettere fine al secolare susseguirsi di
sanguinose rivalità fra i paesi europei, creando un sistema di comuni interessi
sostanzialmente economici. Dato che si trattava, all’inizio, di favorire gli
scambi ed una qualche forma di integrazione fra le diverse economie, la CEE
nacque senza caratteri di democraticità, in quanto espressione dei rispettivi
governi che ne nominavano gli organi decisionali: la Commissione ed il
Consiglio di Ministri. Non venne previsto alcun successivo sviluppo in vista di
una democratica vera integrazione politica fra i paesi aderenti.
E’
ben vero che fin dall’inizio si cercò di giungere a qualche forma di
armonizzazione delle rispettive legislazioni, ma ci si preoccupò soprattutto di
non turbare le politiche che ogni governo riteneva opportuno svolgere nel
proprio paese. Purtroppo, emerse subito l’intenzione da parte di due dei partners
principali, Francia e Germania, di piegare le disposizioni comunitarie al
rispettivo interesse, senza preoccuparsi in alcun modo di verificare – come un sincero spirito
comunitario avrebbe richiesto – se ciò che era bene per loro fosse bene anche per
la comunità. Basta ricordare a tale proposito l’impostazione della politica
agricola comune, l’imposizione di quote di produzione del latte e simili
provvedimenti.
Col
tempo alla Comunità – che successivamente assunse la denominazione di Unione
Europea (UE) – aderirono quasi tutti paesi europei. Ora sono ben ventisette, di
dimensioni, lingua ed importanza molto varia, dalla Germania a Malta e Cipro,
senza peraltro che ne sia stata modificata l’ossatura autoritaria. A titolo di
formale omaggio al comune sentire democratico, si procedette pure alla costituzione di un Parlamento Europeo,
eletto su scala nazionale ed assolutamente privo di alcun effettivo potere.
Peraltro, il tentativo di redigere una costituzione europea – un testo di oltre
duecento pagine – fu sonoramente bocciato dai paesi in cui essa fu sottoposta
all’approvazione popolare mediante referendum.
Alla
fine del secolo scorso si volle fare un ulteriore passo verso qualche tipo di
unificazione europea, con l’adozione di una moneta unica, l’Euro. Si posero
alcune apparentemente severe condizioni per l’adesione al nuovo istituto,
condizioni su cui peraltro si chiuse non uno ma tutti e due gli occhi nei
confronti di alcuni paesi desiderosi di partecipare alla novità (l’Italia in
particolare) ma che non soddisfacevano i requisiti di base. In totale hanno
aderito diciassette paesi e la moneta unica iniziò a circolare nel 2001.
Dopo
un iniziale periodo di euforia generale, alle prime avvisaglie di una forte
crisi a carattere internazionale la nuova creatura mostrò tutti i difetti e le
carenze insite nella sua concezione, e soprattutto mostrò chiaramente
nell’interesse di chi essa era stata creata.
Per
chiarire il concetto esposto occorre fare alcune considerazioni importanti.
Innanzi tutto è ovvio che la moneta di un paese è la tipica espressione della
sovranità dello stato e lo strumento deputato a realizzare la sua politica
economica, sociale, fiscale e persino internazionale. Nel nostro caso è
avvenuto esattamente il contrario: si istituì una comune moneta senza prima
aver provveduto a realizzare organi democratici comuni deputati a formulare
politiche comuni nel senso ora precisato. Senza in sostanza che esistesse
un’autorità democratica a carattere statuale che ne giustificasse l’esistenza
ed il governo. E’ evidente che, in tali condizioni, la guida della politica
monetaria comune venisse assunta, o meglio sarebbe dire imposta, dal paese più
forte e che maggiori vantaggi aveva tratto – e continua a trarre – da questa
incongrua costruzione: la Germania.
Tuttavia
la grave crisi che attanaglia oggi tutto il mondo ha messo in evidenza le
contraddizioni insite in questa costruzione senza basi. I paesi più colpiti e
che maggiormente soffrono sono quelli più deboli, o comunque meno avveduti,
aderenti alla moneta unica: oggi Grecia, Portogallo, Spagna, Italia, domani
anche Francia ed altri, e dovunque sta crescendo un forte moto di rifiuto verso
la moneta unica e addirittura verso l’UE.
Non
è infatti accettabile, per fare un esempio fra tanti, che all’interno di uno
spazio economico e monetario comune esistano paesi in cui il costo del denaro è
inferiore al tasso di inflazione – in cui, in buona sostanza, si fa un regalo a
chi si indebita – ed altri in cui il costo del denaro è addirittura un multiplo
del tasso di inflazione, tasso di inflazione che, in assenza di politiche
economiche, sociali, fiscali comuni è diverso, e spesso molto diverso, da paese
a paese.
La
conclusione che si può trarre dalle osservazioni fatte è che il sistema della
moneta unica europea – in mancanza di un rapido, totale e razionale
ripensamento delle sue regole, cosa peraltro apparentemente impossibile da
realizzare – sia destinato a fallire completamente, dopo aver messo in
ginocchio l’economia di un intero continente proprio nel momento in cui alcune
economie emergenti si presentano in modo estremamente vivace sulla scena
economica e politica mondiale.
Le
intenzioni alla base della costituzione della UE, col successivo imprudente
sviluppo della moneta comune, erano sicuramente buone. Ma, come si sa, di buone
intenzioni è lastricata la via dell’inferno.
Il Bertoldo
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