Nei giorni scorsi si è tenuta in piazza Farnese a Roma un’adunata (sembra questo il termine più adatto a descrivere l’avvenimento, considerate le tendenze autoritarie dell’organizzatore) di simpatizzanti dell’Italia dei Valori, insieme con la solita accozzaglia di disubbidienti, antiberlusconiani per principio, sinistri di varia estrazione, per manifestare contro il governo, reo di voler predisporre una legge di riforma dell’organizzazione della giustizia, in modo tale da permettere al nostro paese di superare il Congo ed il Gabon quanto ad efficienza della magistratura.
Ideatore della schiamazzante riunione è stato, come era da aspettarsi, l’ex questurino, ex magistrato, ora onorevole contadino Antonio Di Pietro che non ha esitato a lanciarsi spericolatamente in un discorso di condanna della proposta di limitare l’uso delle intercettazioni telefoniche da parte della magistratura. Nel calore della sua perorazione se l’è presa con “i silenzi” del Presidente della Repubblica, dichiarando apertamente che “il silenzio è indice di mafiosità, il silenzio è mafioso”. Abbiamo quindi appreso che il paese è rappresentato da un esponente della mafia, come dimostrano i suoi “silenzi”.
Purtroppo l’aspirante Duce non si è reso conto che, quanto a silenzi, lui stesso non si è mai risparmiato: su appartamenti, auto di lusso, prestiti multimilionari restituiti in scatole da scarpe, utilizzo dei fondi elettorali del proprio partito, accesso ad informazioni riservate. Dobbiamo quindi dedurne che lui stesso è mafioso, e quindi si sente in qualche modo collega del Primo Cittadino?
Il Bertoldo
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