Il simpatico Umberto nazionale non è certamente uno statista, ma è di sicuro un politico di grandi doti, specializzato nel lisciare il pelo nel verso giusto al pubblico e nell’utilizzare sempre a proprio vantaggio ogni minima possibilità di ricatto nei confronti dei propri alleati. Tuttavia, e forse proprio per la sua incontrollata ed innata esuberanza, talvolta chiede cose che non conosce bene e di cui non ha la minima idea di come possano realizzarsi. Anzi, in alcuni casi riesce persino a contraddirsi.
A titolo di esempio si può ricordare la sua insistente richiesta di federalismo, senza che egli abbia una chiara idea di cosa si tratti e come esso possa realizzarsi. La parola ha certamente una grande attrattiva, e non importa affatto che ciò che si vuole realizzare non abbia nulla a che fare con il vero federalismo – che nasce sempre dal basso, per esplicita delega di poteri da parte di stati sovrani minori ad un ente superiore e non per gentile concessione dello stato centrale – l’importante è che la parola piaccia al pubblico.
Ultimamente ha avanzato un paio di richieste che sono per lo meno originali, anche se non sembra che egli abbia riflettuto a sufficienza sulla loro validità.
Innanzi tutto ha annunciato la presentazione di un disegno di legge per rendere obbligatorio nelle scuole l’insegnamento del dialetto. Non si conosce ancora il testo del provvedimento, ma l’idea suscita qualche perplessità. La prima obiezione che si può fare è che, per insegnare i dialetti, occorre che ci sia un numero sufficiente di insegnanti qualificati, cosa che non sembra avvenire attualmente.
Ma esistono altri problemi. Per esempio, quali dialetti si dovranno insegnare? E’ evidente che, per limitarci alla sola Lombardia, il dialetto che si parla a Como è molto diverso da quello che si parla a Mantova o a Bergamo: quale scegliere? E se si scelgono tutti quali problemi si presenteranno sia per la scelta degli insegnanti, che diverranno inamovibili, e per la reperibilità di libri di testo opportuni ed adatti a ciascun caso.
Un’altra obiezione sorge spontanea. E’ cosa ormai abituale che le famiglie siano composte da genitori di diversa origine regionale, quando non addirittura nazionale, e che le stesse famiglie siano dotate di grande mobilità in relazione alle possibilità di lavoro che si possono presentare. Cosa succederà ai figli, con i continui spostamenti, e quando i propri genitori saranno del tutto estranei ai dialetti di volta in volta insegnati nelle varie residenze? Sembra chiaro che una simile richiesta (o minaccia) risponde solo ad esigenze di pubblicità personale ma sia all’atto pratico del tutto irrealizzabile.
Ma il colmo del paradosso lo si riscontra nell’altra richiesta: abolire l’inno nazionale per sostituirlo con il “Va’ pensiero” verdiano. Non c’è dubbio che l’Inno di Mameli sia piuttosto retorico e pompieristico, e che dal punto di vista artistico il pezzo verdiano abbia ben diversa validità. Tuttavia nella proposta della Lega si riscontrano un paio di anomalie. Prima di tutto è noto che il coro del Nabucco, durante il Risorgimento, è assurto a simbolo dell’anelito alla realizzazione dell’Unità d’Italia: come la mettiamo con la scarsa passione dell’Umberto e dei suoi nei confronti dell’Italia Unita?
C’è poi un altro problema. Il “Va’ pensiero” è il canto di un popolo esiliato in terra straniera che ricorda con nostalgia il proprio paese d’origine. Sembra quindi che come inno nazionale, per un paese unito ed indipendente, sia un pochino fuori luogo. Tutt’al più esso potrebbe rappresentare l’inno dei meridionali emigrati al nord, quando non addirittura di tutti gli immigrati nel nostro paese, comunitari e non, clandestini e regolari. Come idea, da parte di chi in fondo non è mai stato particolarmente tenero nei confronti sia dei meridionali che dell’immigrazione, non ci sembra particolarmente azzeccata..
Il Bertoldo
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