16 marzo 2010

Magistratocrazia

Il nostro paese è sempre stato estremamente fecondo nell’ideazione di sistemi e dottrine politiche. Senza andare a ritroso fino all’originalissima forma dell’impero romano, basata sulla preminenza – almeno formale – del diritto rispetto ad ogni altra forma di potere, vale la pena di ricordare il formarsi spontaneo ed estremamente fecondo dei liberi comuni, invenzione in buona parte tipicamente italiana, il crearsi delle signorie che furono ben diverse dal precedente feudalesimo, ed infine l’assoluta originalità ed unicità della Repubblica Veneta. Non va poi dimenticato ovviamente il contributo dei grandi pensatori politici rinascimentali italiani, il Machiavelli in testa, il Guicciardini e molti altri.
Alla democrazia l’Italia giunse solo verso la metà dell’ottocento, importando questa forma politica oggi comune a tutto il mondo occidentale, dalla tradizione anglosassone e liberale, ed è alla democrazia che si ispira, pur con qualche tentennamento, la nostra costituzione. Tuttavia, per l’irresponsabilità e l’insipienza della nostra classe politica, oggi si sta affermando una particolare forma politica, del tutto inedita nel mondo (quando si dice la creatività della nostra gente!) che potremmo definire Magistratocrazia, intendendosi con il termine magistrato non un generico soggetto incaricato di una funzione pubblica (magisterium), ma più esattamente ogni membro dell’ordine giudiziario.
Le prime manifestazioni dell’intenzione di un gruppo di magistrati di sostituire il proprio potere a quello della politica – quest’ultima almeno teoricamente espressione della volontà popolare - si ebbero all’inizio degli anni novanta del secolo scorso con l’avvio del cosiddetto periodo di “mani pulite”. Non a caso l’iniziatore dell’attacco della magistratura nei confronti della politica fu un fino allora sconosciuto magistrato che in seguito gettò la toga alle ortiche per diventare in seguito il capo indiscusso dell’opposizione, Antonio Di Pietro.
Con l’appoggio del PCI, cui molti magistrati erano legati, l’operazione si concluse con il dissolvimento di tutti i partiti preesistenti, con l’ovvia eccezione del partito comunista. La classe politica ancora formalmente in carica commise l’errore tragico e fondamentalmente masochistico di abolire l’unica garanzia che la costituzione offriva alla politica per evitare le eventuali prevaricazioni dell’ordine giudiziario e garantire l’equilibrio dei poteri: il divieto di sottoporre a procedimento penale i membri del parlamento senza l’autorizzazione del parlamento stesso. Da allora fu una vera orgia di imputazioni nei confronti di parlamentari, ministri ed esponenti politici, con l’eccezione dei comunisti.
L’entrata in campo di Silvio Berlusconi sconvolse i piani di predominio del PCI e della magistratura, ormai prossimi all’effettiva realizzazione. Da allora ebbe inizio una vera e propria persecuzione giudiziaria nei confronti del nuovo arrivato, con centinaia di controlli nelle sue aziende e decine di processi intentati a suo carico, tutti risoltisi poi con il proscioglimento. Una parte della magistratura si dedica da allora alla ricerca di argomenti, spesso speciosi e fumosi, al fine di eliminare dalla scena politica l’intruso.
La situazione ha subito una decisiva svolta con l’entrata in politica dell’ex magistrato Di Pietro, che, dopo aver fondato un proprio movimento politico il cui unico programma consiste nella eliminazione di Berlusconi e del suo movimento dalla scena istituzionale, è riuscito, per l’insipienza dell’unico grande partito di sinistra, il PD, ex DS, ex PCI, e per la sete di visibilità del partito radicale, in altri tempi alfiere delle idee libertarie, a porsi come leader di fatto dell’opposizione, pur non rappresentando che una quota minima di elettori.
Gli ultimi episodi di intrusione della magistratura nella politica, culminati con il tentativo di estromettere dalla battaglia elettorale il PDL, unico ostacolo alla presa di potere da parte delle sinistre e soprattutto da parte di Di Pietro che non ha mai nascosto le proprie velleità di assurgere ad arbitro della politica italiana, anche attraverso uno scontro non solo con i partiti avversari ma addirittura con la Presidenza della Repubblica, oltre che con i propri sodali del PD ed associati, sono da settimane l’argomento principale dei media e delle discussioni politiche.
Da quanto si è detto appare evidente che una parte della magistratura, quella più militante, da ordine garante dell’osservanza della legge è diventata essa stessa partito politico che, superando ogni remora ed ogni principio di democrazia, tende a farsi organo legiferante, attraverso minacce nei confronti di ogni provvedimento che non le piaccia, l’opposizione a qualsiasi tentativo di riformarne l’organizzazione, ed oggi addirittura tentando quello che, in altri paesi, sarebbe considerato un vero e proprio golpe con il sostanziale divieto ad una parte presumibilmente maggioritaria dell’elettorato di esprimere le proprie preferenze.
Va tuttavia rilevato che nel proprio distorto agire la magistratura politicamente attiva si è giovata dell’assoluta mancanza di capacità decisionale dei partiti di centro destra, forti nel consenso popolare ma del tutto incerti e inconcludenti sul piano delle realizzazioni. Per quanto il premier Berlusconi, con estrema ripetitività, affermi quotidianamente che il proprio partito è il partito del “fare”, la realtà è che esso si presenta sempre più come il partito del “promettere”, senza che alle promesse di incisive riforme seguano atti concreti.
Da moltissimi anni, proprio per arginare l’invadenza della magistratura, si promette ad ogni tornata elettorale una decisa riforma, ma in realtà non si è mai presentato un preciso programma che spieghi ai cittadini in cosa si pensa che tale riforma debba consistere. In fondo, al di là delle lamentele e dei piagnistei per l’antidemocratico comportamento della magistratura in occasione dell’affare “liste”, occorre precisare con forza che se una parte della magistratura, fino ai più alti livelli, riesce a fare il bello ed il cattivo tempo, ciò si deve alla inazione ed alle divisioni in seno all’unica parte politica che avrebbe ormai da tempo potuto porre un chiaro limite a quelli che oggi vengono definiti abusi, e che in realtà non consistono in altro che nella realizzazione del ben noto principio secondo il quale non possono esistere dei vuoti che non vengano occupati da chiunque ne abbia la possibilità.
Il Bertoldo

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