L’Italia è certamente il paese più riformista del mondo. Dappertutto sul piano politico si affrontano due schieramenti, l’uno che normalmente si definisce riformista, l’altro che invece si definisce conservatore.
In Italia non è così. Da un lato abbiamo i partiti cosiddetti di sinistra o di centro sinistra che ufficialmente si definiscono riformisti, dall’altro abbiamo i partiti cosiddetti di destra o di centro destra che proclamano di avere come oggetto principale della propria azione politica la realizzazione di tutta una serie di riforme. Nessuno osa proclamarsi conservatore, anche perché forse c’è ben poco di buono da conservare, da noi.
Naturalmente, e qui sta il paradosso, tutto lo schieramento politico, da destra a sinistra, si guarda bene dal mettere in cantiere le cosiddette riforme: se veramente si facessero cosa resterebbe più da riformare? E, una volta realizzate le riforme sognate, non è che tutti dovrebbero di necessità proclamarsi conservatori, per evitare che esse siano stravolte? Quindi, tutti riformisti senza riforme, per non essere catalogati con quella parola tabù.
Peraltro, non è che il nostro paese non abbia bisogno di essere riformato: una burocrazia asfissiante, inconcludente e parassitaria, una giustizia politicizzata e del tutto inefficiente, un sistema fiscale di rapina che blocca qualsiasi possibilità di sviluppo, uno statalismo invadente, che pretende di occuparsi di tutto, salvo delle cose veramente essenziali, un’organizzazione istituzionale bizantina basata sul cosiddetto bicameralismo perfetto e rappresentanze popolari pletoriche, l’ordine pubblico lasciato nelle mani della malavita ed affetto da buonismo congenito, e cento altri problemi ben noti a tutti salvo a chi dovrebbe risolverli.
Tuttavia in questo momento sembra che l’unica riforma che interessi i cosiddetti riformisti – quelli di sinistra e centro – sia la riforma del sistema elettorale. La legge elettorale attuale, concepita nell’illusione di garantire la governabilità, ha certamente molti difetti, di cui i principali sembrano essere l’impossibilità per i cittadini di esprimere le proprie preferenze, sia pure in una lista di candidati predisposta dalle segreterie dei partiti, e l’attribuzione del premio di maggioranza alla coalizione anziché al partito che ha raccolto maggiori consensi, dando così luogo ad una grande instabilità e venendo meno a quel requisito di governabilità che dovrebbe essere il principale obiettivo.
La richiesta dei cosiddetti riformisti è, in sostanza, il ritorno ad un sistema rigorosamente proporzionale, che escluda ogni premio di maggioranza: si tornerebbe così al clima da prima repubblica, che metterebbe i partiti, grandi o piccoli che siano, nella necessità di cercare liberamente alleanze non prima ma dopo le elezioni, rendendo di fatto inutile la presentazione previa di programmi (che comunque non vengono mai né rispettati né realizzati). Per usare un’espressione da qualche tempo venuta di moda, si tratterebbe quindi di una legge elettorale “ad partitos” (il latino è maccheronico ma ben comprensibile)?
Il Bertoldo
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