Tutte le parti politiche, dalla destra alla sinistra, non perdono occasione per far presente all’intero paese, con tono preoccupato, che è non solo necessario ma urgente avviare una stagione di profonde riforme, per rendere l’Italia un paese moderno in grado di competere ad armi pari con il resto del mondo.
In vista di un domani migliore, grazie alle auspicate riforme, un neo partito, insieme a molte fondazioni di carattere politico, si fregia nella propria “ragione sociale” della parola “futuro”.
Se, uscendo dalle chiacchiere, si passa ad esaminare i fatti ci si rende conto che ben pochi credono veramente a ciò che dicono. Un esempio eclatante lo si è avuto proprio in questi giorni in occasione del XXX congresso nazionale dell’Associazione Nazionale Magistrati (il sindacato dei magistrati). Il Presidente dell’Associazione, Luca Palamara, ha riconosciuto che la giustizia in Italia non funziona o funziona molto male, ed ha ricordato che in questo campo l’Italia è peggio del Ruanda.
A parte il fatto che questo paragone sa tanto di razzismo, dato che per indicare un paese molto arretrato si è preso a campione un paese africano – e speriamo che non ci siano proteste diplomatiche – rispetto al quale tuttavia l’Italia non brilla, stupisce che il Palamara, eletto presidente nel maggio 2008, in due anni e mezzo non si sia mai occupato del degrado dell’istituzione, ma abbia speso il suo tempo unicamente ad ostacolare qualunque sia pur modesto tentativo governativo di intervenire.
Ma l’affermazione più curiosa è certamente quella da lui stesso fatta, che la Magistratura deve procedere ad un’autoriforma. Non si capisce bene che cosa egli abbia inteso con questa dichiarazione, se pensava ad una migliore organizzazione degli uffici giudiziari e ad uno sprone ai magistrati perché lavorino di più e meglio, senza personalismi e vanità più adatti a delle subrettes televisive che ad austeri custodi della maestà della legge, oppure se pensava ad una vera e radicale riforma dell’ordine, tale da consentire al nostro paese di superare quantomeno il Ruanda. Se quest’ultima interpretazione è quella giusta, ci sembra un po’ fuori luogo, dato che il potere di riformare veramente la magistratura spetta ovviamente al Parlamento, espressione (almeno così si dice) della volontà popolare, e non ad una organizzazione corporativa quale è un sindacato.
L’unico modo praticabile perché anche i magistrati possano partecipare al processo di riforma della magistratura sarebbe quello di presentare al Parlamento ed al governo un progetto di riforma articolato e coerente con le attese dei cittadini – già ampiamente sfiduciati in proposito – al fine di dimostrare coi fatti e non con le parole la volontà di modificare una situazione chiaramente indegna di un paese civile, collaborando e non limitandosi a dire no, anche con scioperi e manifestazioni finora riservati per consuetudine ai metalmeccanici e simili categorie di lavoratori, ad ogni sia pur timido proposito di intervento in merito. Ma forse questo è sperare troppo…
Il Bertoldo
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