Il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano in una delle sue quotidiane omelie ha recentemente richiamato l’attenzione dei suoi concittadini sul fatto che il nostro paese cresce in modo del tutto insufficiente a far fronte alle nostre esigenze. Ciò basandosi sui dati di una recente comunicazione ufficiale che fissava la crescita italiana, nel 2010 e nel 2011 a non più dell’1%. Non possiamo che essere grati a sì alto pulpito per averci ricordato quello che tutti sappiamo, non dalle statistiche più o meno ufficiali, ma dalla nostra stessa esperienza quotidiana.
La Presidente di Confindustria, Emma Marcegaglia, si è prontamente unita alla denuncia, chiarendo che a suo avviso il governo negli ultimi sei mesi non avrebbe concluso niente. Ai due si è ovviamente unito il coro delle opposizioni, reclamando una più attiva azione di governo per riavviare l’economia, eliminare il precariato, dare lavoro ai giovani e simili novità, azione che sarebbe possibile solo se il Presidente Berlusconi “fa un passo indietro” ed in tal modo permette ai numerosi partiti di opposizione ed ai loro validissimi leaders di cimentarsi con il problema e risolverlo in quattro e quattr’otto, per prima cosa sparando un salutare aumento dell’imposizione fiscale sotto forma di una patrimoniale che finalmente colpisca i ricchi a vantaggio dei poveri.
Di fronte a tanti interventi si ha l’impressione che nessuno degli intervenuti nel dibattito si sia chiesto per quali motivi l’economia italiana, che in passato ha brillato per la sua dinamicità, stia non da ieri in una situazione di stallo che ci fa perdere posizioni e competitività nei confronti dei nostri concorrenti, europei e non. E’ nostra convinzione che qualunque cura non possa esimersi dal formulare prima di tutto una diagnosi, cosa che sembra che nessuno abbia l’intenzione e forse neppure la volontà di fare, per il rischio di offendere qualche categoria troppo potente per essere toccata.
Innanzitutto occorre stabilire se si preferisce che il motore della ripresa sia costituito dall’iniziativa privata o se si opta per uno sviluppo di tipo sovietico, con pesante intervento dello stato e, perché no, di un piano pluriennale. Nel primo caso c’è da chiedersi se si ritiene che sia possibile uno sviluppo privato se lo stato assorbe più del 50% di quanto prodotto nel paese; nell’altro caso non c’è da illudersi che, diversamente da quanto è successo in passato, la mano pubblica sia in grado finalmente di rivelarsi efficiente e competitiva, oltre che razionale.
Un grave problema che affligge il paese è costituito com’è noto dall’enorme debito pubblico, molto superiore al PIL di un anno. Le ricette finora proposte per ridurlo sono del tutto impraticabili. Da parte dell’opposizione si ipotizza una pesante tassa patrimoniale, che metterebbe definitivamente a terra il paese, distruggendone il risparmio. La maggioranza, per bocca del premier, auspica invece un forte incremento del PIL (come, non è spiegato), in modo che il debito rappresenti una minor quota del PIL rispetto ad oggi: in realtà varierebbe sì la percentuale sul PIL ma l’ammontare in valore assoluto resterebbe comunque lo stesso. D’altra parte, se non si raggiunge il pareggio di bilancio – e non parliamo di avanzo di bilancio – il deficit annuale non può essere finanziato che con ulteriore indebitamento.
Sembra quindi che, volendo ragionare in modo non troppo fantasioso, la diminuzione reale del debito pubblico può essere raggiunta unicamente in due modi: riducendo drasticamente la spesa dello stato e degli enti pubblici, in modo da raggiungere un equilibrio di bilancio e da diminuire sensibilmente il carico fiscale, in tal modo lasciando maggiori risorse in mano ai cittadini, oppure mettendo in vendita le migliaia di aziende e di beni immobili di proprietà pubblica. Ambedue queste strade sono difficilissime. La prima provocherebbe immediatamente gravissimi problemi sociali; la seconda non sarebbe gradita alla classe politica che prospera economicamente sugli incarichi, del tutto inutili, che la manomorta pubblica consente, e d’altra parte si presterebbe ai peggiori abusi, attraverso la concessione di condizioni di speciale favore nell’acquisto agli amici degli amici. Senza entrare in altri problemi, il caso Montecarlo docet.
In definitiva sarebbe ora che si incominci a fare sul serio ed a proporre rimedi ragionevoli e non di pura fantasia. Per esempio, una forma di vero federalismo fiscale – non quel federalismo burletta che ci viene proposto - che lasci alle regioni più efficienti una maggior quota della ricchezza prodotta, per favorire gli investimenti privati grazie a riduzioni differenziate degli oneri fiscali – in tal modo facendole funzionare da vera “locomotiva” per l’intero paese - eliminando tuttavia la tentazione di lasciare questi fondi nelle mani della politica che, di qualunque colore si ammanti, ha sempre dimostrato di essere maestra nello sperpero e nel foraggiare il parassitismo.
Infine l’altro nodo cruciale del sottosviluppo italiano è costituito dall’assoluta inefficienza dell’apparato statale e del settore pubblico, così come della magistratura. Peraltro il nostro paese è afflitto da una esagerata produzione di leggi, regolamenti, chiarimenti, decreti, circolari applicative, eccetera, con la negativa conseguenza di una totale incertezza del diritto e quindi di scoraggiare ogni intenzione imprenditoriale di investimento. Molti altri sono i punti su cui si dovrebbe agire, ma quelli citati ci sembrano assolutamente fondamentali
In conclusione, non sembra che, date le premesse, sia lecito sperare che il rilancio sia vicino.
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