In questi ultimi tempi fervono le polemiche su alcune affermazioni fatte da esponenti del governo riguardo a certe aspirazioni abbastanza generalizzate di molti giovani, quelli per il cui “posto” (per carità, non parliamo di lavoro) sindacati, politici, media, clero sono in costante agitazione.
Il Presidente del Consiglio, con un certo humor, ha sconsigliato di aspirare al posto fisso, perché sarebbe “monotono”. Il Ministro dell’Interno ha criticato la voglia di posto fisso, per di più vicino a mamma e papà. Il ministro del Welfare ha detto che non si deve dare l’illusione del posto a vita, che non ci possiamo permettere. Ed il vice ministro del Welfare ha definito “sfigati” coloro che a ventotto anni non sono ancora laureati.
A nostro parere le polemiche in argomento sono del tutto inutili, buone soltanto a dare fiato a stampa e televisione, a segnalare personaggi politici o sindacali del tutto insignificanti quali interpreti, soprattutto con comparsate in TV, di principi obsoleti e promotori di battaglie inutili e soluzioni insensate. Anche gli esponenti del governo si limitano ad esortare i giovani ad adottare comportamenti più in linea con i tempi che corrono, ma si guardano bene dal proporre rimedi.
A rigor di logica, prima di affrontare gli eventuali rimedi, occorre fare il punto della situazione. Per quale motivo tanti giovani – e non solo loro – aspirano all’agognato posto fisso? Perché nella società italiana il “posto fisso” c’è, per legge. E’ evidente che se non ci fosse nessuno si sognerebbe di farne la propria massima aspirazione. E dove si annida questa anomalia? Essenzialmente nella pubblica amministrazione, statale, regionale, provinciale, comunale, ed in tutte le loro innumerevoli ramificazioni e dipendenze, ma anche in certe disposizioni dello Statuto dei Lavoratori, tali il famigerato articolo 18.
E’ pur vero che l’articolo 4 della Costituzione “riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro”, ma parla di “lavoro” e non di “posto”, ed all’articolo 97 vengono fissate le modalità per accedere ai pubblici uffici (per concorso), ma non si specifica in alcun modo che gli incarichi pubblici debbano essere a vita.
Sembra quindi che, anziché dissertare accademicamente e polemizzare a vuoto, sarebbe opportuno che si incominciasse a ragionare seriamente sul problema. Appare ragionevole che si discuta accanitamente sulla modifica o l’abolizione dell’art. 18, ma per quale motivo non si affronta il problema anche per quanto riguarda la pubblica amministrazione? La Costituzione, questo intoccabile totem, non precisa forse che tutti i cittadini sono uguali di fronte alla legge? Però questo principio non può e non deve essere aggirato furbescamente emanando leggi di favore ad hoc per determinate categorie di cittadini.
Il Bertoldo
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