24 marzo 2012

Articolo 18

Da alcune settimane c’è un tormentone che ci assale quotidianamente ed in fondo ci sta mortalmente annoiando, dato che le diverse parti in causa non fanno che ripetere stancamente gli stessi discorsi, spesso assai poco convincenti, come dei dischi rotti. Si tratta dell’eventuale modifica dell’articolo 18 dello statuto dei lavoratori, nell’ambito di una possibile riforma delle norme sul lavoro. Prima di entrare nel merito sembra curioso notare che tutti gli interlocutori, soprattutto i più contrari, non risulta che abbiano mai veramente lavorato in vita loro.
A parte queste considerazioni abbiamo notato, nel corso delle innumerevoli discussioni sull’argomento, che l’ormai desueta (così credevamo) ideologia della lotta di classe è tutt’ora ben viva nella mente (?) di molti interlocutori. In sostanza si è argomentato che con l’abolizione o lo snaturamento dell’art. 18 gli imprenditori avrebbero dato inizio ad una infinita serie di licenziamenti, manifestando in questo modo la propria avversione nei confronti dei lavoratori – la classe operaia – grazie alla carenza di leggi che proteggano i lavoratori dall’arbitrio dei capitalisti.
Questa grossolana analisi non solo è completamente sbagliata, ma contiene delle serie contraddizioni. Infatti il capitalista proprietario dei mezzi di produzione non potrà produrre nulla senza l’apporto dei lavoratori, e quindi rischierà di perdere l’investimento fatto e restare senza reddito. Anzi, come la storia dimostra, di fronte alla possibilità di incrementare la propria azienda avrà tutto l’interesse a cercare e ad arruolare nuova forza lavoro. D’altra parte anche i lavoratori hanno assoluto bisogno di disporre dei mezzi di produzione – di proprietà del “capitalista” – per poter lavorare e quindi ottenere il reddito necessario per vivere.
Queste sono evidentemente delle ovvietà, peraltro non riconosciute come tali da molti pseudo ideologi e pensatori soprattutto di sinistra. Ricordato tutto ciò, quale sarebbe l’interesse dell’imprenditore di licenziare coloro che, permettendogli lo sfruttamento dei propri mezzi di produzione, gli assicurano reddito, ritorno degli investimenti fatti e crescita? E’ evidente che gli unici casi in cui un imprenditore può essere indotto a liberarsi di una parte della propria forza lavoro sono di carattere economico oppure dovuti allo scarso rendimento o all’inadeguatezza di un determinato lavoratore. Un imprenditore che agisse diversamente sarebbe da definire uno stupido ed un masochista.
D’altra parte bisogna ricordare che è interesse del lavoratore far sì che l’azienda prosperi: scioperi pretestuosi e sabotaggi più o meno palesi – anche se normalmente giustificati da una magistratura schierata su posizioni ideologiche ben definite – non possono che danneggiare l’impresa: in questi casi, se si giunge alla cessazione di ogni attività, normalmente l’imprenditore bene o male riuscirà lo stesso a campare. Il lavoratore no. La cosa curiosa è che in questi casi la maggioranza dei lavoratori colpiti se la prenderà con l’imprenditore e non con il sindacato, molto spesso il fattore determinante nella crisi.
Ora vale la pena di notare che l’opposizione alla modifica della legislazione sul lavoro ed in particolare del famigerato articolo 18 può essere divisa in due diversi gruppi. Da un lato i partiti di sinistra ed una parte dei sindacati, tutt’ora legati a concezioni del tutto inattuali, retaggio dell’ubriacatura marxista, e dall’altro un paio di partiti, la Lega e l’IDV, che marxisti certamente non sono, che esprimono “solidarietà” ai lavoratori solo per motivi elettorali: le elezioni amministrative sono alle porte e quelle politiche non molto distanti, ed i lavoratori sono certamente più numerosi degli imprenditori: non si sa mai che credano veramente alla sincerità di questi loro difensori improvvisati ….
Com’è noto il buon senso e l’onestà intellettuale non sono le doti più comuni fra i mortali, specialmente in quelli più impegnati, direttamente od indirettamente, in politica. Eppure vogliamo credere, contro ogni evidenza, che alla fine il buon senso e l’onestà intellettuale prevalgano e si giunga finalmente ad una organizzazione del lavoro su basi moderne, ragionevoli e socialmente corrette, che non danneggino né i lavoratori né le aziende che costituiscono il loro principale mezzo di sostentamento.
Il Bertoldo

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