09 maggio 2012

Europa


La Comunità Economica Europea (CEE), altrimenti detta anche Mercato Europeo Comune (MEC), ebbe i suoi natali con i Trattati di Roma nel 1957. Con tale organizzazione, cui sin dall’inizio aderirono i sei paesi fondatori, Francia, Italia Germania, Belgio, Olanda e Lussemburgo, si volle creare un’area di libero scambio di merci, servizi, persone e movimenti finanziari.
Con questa nuova creatura si volle mettere fine al secolare susseguirsi di sanguinose rivalità fra i paesi europei, creando un sistema di comuni interessi sostanzialmente economici. Dato che si trattava, all’inizio, di favorire gli scambi ed una qualche forma di integrazione fra le diverse economie, la CEE nacque senza caratteri di democraticità, in quanto espressione dei rispettivi governi che ne nominavano gli organi decisionali: la Commissione ed il Consiglio di Ministri. Non venne previsto alcun successivo sviluppo in vista di una democratica vera integrazione politica fra i paesi aderenti.
E’ ben vero che fin dall’inizio si cercò di giungere a qualche forma di armonizzazione delle rispettive legislazioni, ma ci si preoccupò soprattutto di non turbare le politiche che ogni governo riteneva opportuno svolgere nel proprio paese. Purtroppo, emerse subito l’intenzione da parte di due dei partners principali, Francia e Germania, di piegare le disposizioni comunitarie al rispettivo interesse, senza preoccuparsi in alcun  modo di verificare – come un sincero spirito comunitario avrebbe richiesto – se ciò che era bene per loro fosse bene anche per la comunità. Basta ricordare a tale proposito l’impostazione della politica agricola comune, l’imposizione di quote di produzione del latte e simili provvedimenti.
Col tempo alla Comunità – che successivamente assunse la denominazione di Unione Europea (UE) – aderirono quasi tutti paesi europei. Ora sono ben ventisette, di dimensioni, lingua ed importanza molto varia, dalla Germania a Malta e Cipro, senza peraltro che ne sia stata modificata l’ossatura autoritaria. A titolo di formale omaggio al comune sentire democratico, si procedette pure  alla costituzione di un Parlamento Europeo, eletto su scala nazionale ed assolutamente privo di alcun effettivo potere. Peraltro, il tentativo di redigere una costituzione europea – un testo di oltre duecento pagine – fu sonoramente bocciato dai paesi in cui essa fu sottoposta all’approvazione popolare mediante referendum.
Alla fine del secolo scorso si volle fare un ulteriore passo verso qualche tipo di unificazione europea, con l’adozione di una moneta unica, l’Euro. Si posero alcune apparentemente severe condizioni per l’adesione al nuovo istituto, condizioni su cui peraltro si chiuse non uno ma tutti e due gli occhi nei confronti di alcuni paesi desiderosi di partecipare alla novità (l’Italia in particolare) ma che non soddisfacevano i requisiti di base. In totale hanno aderito diciassette paesi e la moneta unica iniziò a circolare nel 2001.
Dopo un iniziale periodo di euforia generale, alle prime avvisaglie di una forte crisi a carattere internazionale la nuova creatura mostrò tutti i difetti e le carenze insite nella sua concezione, e soprattutto mostrò chiaramente nell’interesse di chi essa era stata creata.
Per chiarire il concetto esposto occorre fare alcune considerazioni importanti. Innanzi tutto è ovvio che la moneta di un paese è la tipica espressione della sovranità dello stato e lo strumento deputato a realizzare la sua politica economica, sociale, fiscale e persino internazionale. Nel nostro caso è avvenuto esattamente il contrario: si istituì una comune moneta senza prima aver provveduto a realizzare organi democratici comuni deputati a formulare politiche comuni nel senso ora precisato. Senza in sostanza che esistesse un’autorità democratica a carattere statuale che ne giustificasse l’esistenza ed il governo. E’ evidente che, in tali condizioni, la guida della politica monetaria comune venisse assunta, o meglio sarebbe dire imposta, dal paese più forte e che maggiori vantaggi aveva tratto – e continua a trarre – da questa incongrua costruzione: la Germania.
Tuttavia la grave crisi che attanaglia oggi tutto il mondo ha messo in evidenza le contraddizioni insite in questa costruzione senza basi. I paesi più colpiti e che maggiormente soffrono sono quelli più deboli, o comunque meno avveduti, aderenti alla moneta unica: oggi Grecia, Portogallo, Spagna, Italia, domani anche Francia ed altri, e dovunque sta crescendo un forte moto di rifiuto verso la moneta unica e addirittura verso l’UE.
Non è infatti accettabile, per fare un esempio fra tanti, che all’interno di uno spazio economico e monetario comune esistano paesi in cui il costo del denaro è inferiore al tasso di inflazione – in cui, in buona sostanza, si fa un regalo a chi si indebita – ed altri in cui il costo del denaro è addirittura un multiplo del tasso di inflazione, tasso di inflazione che, in assenza di politiche economiche, sociali, fiscali comuni è diverso, e spesso molto diverso, da paese a paese.
La conclusione che si può trarre dalle osservazioni fatte è che il sistema della moneta unica europea – in mancanza di un rapido, totale e razionale ripensamento delle sue regole, cosa peraltro apparentemente impossibile da realizzare – sia destinato a fallire completamente, dopo aver messo in ginocchio l’economia di un intero continente proprio nel momento in cui alcune economie emergenti si presentano in modo estremamente vivace sulla scena economica e politica mondiale.
Le intenzioni alla base della costituzione della UE, col successivo imprudente sviluppo della moneta comune, erano sicuramente buone. Ma, come si sa, di buone intenzioni è lastricata la via dell’inferno.
          
         Il Bertoldo

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