La moneta unica ha rappresentato il tentativo burocratico di forzare un'unione politica innaturale.
La crisi economica porterà a una frattura definitiva e a una federazione di Regioni.
L’Europa sta attraversando la più grave crisi dalla fine della Guerra. Un piccolo e periferico popolo si reca proprio in queste ore alle urne e il suo voto non potrà salvare né se stesso né la moneta unica, ma forse potrebbe procrastinare il disastro. L’attuale crisi è la resa dei conti su scala continentale del conflitto Stato/mercato che attraversa la politica dell’ultimo secolo. In Europa esiste, infatti, un forte pregiudizio antimercato, un sentimento anticapitalista poco articolato, da no global d’accatto, ma i cui latori principali (con variabili gradi di virulenza) sono proprio i governanti. Mentre le classi politiche al potere scavavano debiti pubblici colossali e mettevano a repentaglio il benessere dei vivi e dei nascituri, riuscivano anche a convincere i loro gonzi portatori di voti che la prosperità del continente era messa in pericolo da «ben altro». Gli Stati sociali europei avevano, infatti, il compito di salvare i cittadini dal «mercato», dagli scambi globalizzati, dal «capitale» e dalla sua inesorabile logica fondata sul profitto.
In Europa prevale una visione alla Tremonti di un mercato utile solo se al servizio della politica, ma del tutto evidentemente questa concezione non porta crescita di sorta. Tutti gli equilibri territoriali a noi noti sono destinati ad essere messi in discussione dalla fine della crescita economica. Come i lettori di Libero hanno avuto modo di osservare, un paio di giorni or sono il Financial Times ha mostrato una cartina che rilanciava l’idea di un’Europa piccola e coesa come l’impero carolingio, e la potenza evocativa in Italia di una mappa del continente nella quale il Paese risultava spezzato in due ha procurato enorme pubblicità all’articolo.
L'ASSEGNO DA 11MILA
Indubitabilmente, in Italia coesistono realtà di tipo greco con aree (potenzialmente) assai più dinamiche della Germania e il confine fra queste realtà è puramente geografico. Tecnicamente Calabria, Sicilia, Campania e l’intero Meridione sarebbero fallite al pari della Grecia visto che la spesa pubblica è in queste zone stabilmente oltre il 70% del PIL (al contrario il rapporto in Lombardia si attesta sul 40%, più o meno come in Svizzera). Ciò che previene il fallimento è un solo fatto: ogni lavoratore lombardo stacca un assegno di circa 11.000 euro all’anno per finanziare il Meridione (anche gli altri lavoratori del Nord firmano un assegno per il Sud ogni anno, ma con una cifra assai più bassa). Eppure ormai anche la più selvaggia redistribuzione territoriale della storia non basta più.
La riproposizione della cartina dell’Europa lotaringia indica un semplice fatto: di fronte alla crisi il processo di unificazione europea mostra la corda e insieme ad essa sorprendenti similitudini con la storia del nostro Paese. Insomma, l’Europa è una più grande Italia, con una non piccola differenza: i tedeschi non mostrano di avere alcuna intenzione di fare i lombardi di turno. E di fronte a quello che appare un ruolo in commedia già assegnato qualcuno rispolvera un’unità più piccola, coesa e soprattutto costituita da aree dove il fenomeno del parassitismo sarebbe assai contenuto.
Ma il segreto della «Lotaringia» sta proprio nella sua frammentazione politica, non nell’unificazione. Quell’area che va da Firenze ad Anversa, passando per l’Italia del Nord, la Svizzera, la Francia orientale, la Germania sud-occidentale, il Belgio e l’Olanda è stata la patria della più grande rivoluzione della storia dell’umanità: quella che ha creato il mercato capitalistico, che a sua volta ha prodotto un aumento della ricchezza senza precedenti. Ma l’Europa di allora era una grande Svizzera, con centinaia di entità né sovrane, né pienamente autonome, attraverso le quali scambi e traffici non erano disciplinati da un’autorità superiore. La gloria e la ricchezza dell’Europa derivano in misura preponderante da un «non evento» di carattere politico: la mancata imperializzazione del continente. Carlo Magno, Carlo V, Napoleone, Hitler sono stati sconfitti e da questo è nata la nostra relativa libertà e l’enorme benessere di cui abbiamo goduto. L’Unione europea non è che la riedizione «democratica» di un tentativo nei secoli fallito. L’euro nasceva in un periodo di stallo sulla via unificazionista: usando uno strumento solo apparentemente economico, si voleva dare scacco alla politica. E così è stato. Il lancio di una moneta senza Stato voleva essere il volano per la creazione di un Super-Stato e per il rilancio del processo di unificazione europea. L’euro e la sua inevitabile crisi pongono quindi l’utopia europeista di fronte ad un bivio inaggirabile: o dichiarare la bancarotta (in senso letterale) dell’ideale e della moneta o procedere verso la definitiva costruzione dell’Europa come Super-Stato con confini chiari e autorità centrali preposte ad ogni sorta di riscossione.
PULSIONI UNITARIE
Il tentativo dei governanti è proprio quello di innalzarsi, di costruire cartelli continentali per riacciuffare i mercati e riportarli nel loro alveo naturale, vale a dire sotto il loro controllo. L’Europa è uno stato sociale di dimensioni continentali, l’ultima ancora di salvataggio del pesantissimo welfare State creato dalle grandi nazioni europee negli ultimi decenni. Il progetto è in sintonia con gli interessi delle classi dirigenti europee, che per mezzo di questo elefantiaco apparato continentale pensano di poter gestire senza troppe scosse il declino economico del continente. Ma le scosse ci sono eccome e appaiono destinate a travolgere i progetti delle burocrazie illuminate.
Nella seconda metà dell’Ottocento lo spirito del tempo era quello delle «unificazioni», dei consolidamenti continentali e della creazione di unità politiche sempre più vaste. Cavour, Lincoln, Bismarck avevano il vento della storia in poppa e i loro avversari sono stati spazzati via. Un secolo e mezzo dopo i rintocchi a morte stanno forse suonando per gli Stati nazionali, ma lo Zeitgeist indica ben altra via d’uscita che le mega strutture continentali: la frammentazione politica e l’unificazione economica. Ossia, l’Europa si salverà solo diventando una grande Svizzera e abbandonando il progetto che sta percorrendo: quello di una di una super-Italia.
di Luigi Marco Bassani
2 commenti:
bello, e quasi tutto giusto.
un solo appunto: Carlomagno e Carlo V non furono sconfitti, ma ebbero l'intelligenza e la prudenza di ritirarsi, riservando ai propri discendenti un potere locale per non creare un impero ingestibile.
Hitler e Napoleone no, e infatti finirono male assai.
p.s.: un'Europa di regioni più piccole e coerenti degli attuali stati nazionali (alcuni dei quali sinceramente assurdi, come il Belgio per esempio), con una fiscalità federale che finanzi opere e attività chiare e limitate (strade, ferrovie, esercito, polizia e sistema giudiziario federali), con termini di associazione, dissociazione e permanenza nell'alleanza chiari e certi, e non soltanto economici sarebbe l'ideale.
i presupposti storici ci sono tutti, e se il territorio dell'attuale Italia venisse diviso in quattro (NO, NE, centro e Sud) non ci sarebbe nessun cambiamento in negativo rispetto alla situazione attuale, anzi....
e poter vedere la restaurazione di un regno di Sardegna (con magari la Corsica in sovrappiù) sotto la guida di Amedeo duca di Savoia, integrato in un'Europa finalmente moderna è un mio antico sogno....
Concordo su tutto, ma ... quasi una settimana prima del Financial Times, era stato Demata (il mio blog) a pubblicare riflessioni e cartine.
http://demata.wordpress.com/2012/06/11/eurozona-i-soliti-tedeschi/
Non c'è bisogno di varcare l'Atlantico per trovare risposte: basta ragionare da Europei e con la propria testa.
Cordiali saluti.
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