06 luglio 2012

Spread


Questa parola “di colore oscuro”, come avrebbe detto il Divino Poeta, è ormai entrata nel nostro lessico comune. Com’è noto, essa indica la differenza dei tassi di interesse fra i titoli di stato italiani e tedeschi di analoga durata. Da sempre esso è positivo, ma solo da poco meno di un anno il suo valore si è impennato, spesso ben al di sopra dei quattro punti percentuali. Ciò significa che lo stato italiano per finanziare il suo enorme debito pubblico – oggi superiore al 120% del PIL – deve pagare interessi molto alti, che incidono pesantemente sui nostri conti ed in buona parte sono responsabili del perdurante disavanzo.
Il motivo di questi alti tassi di interesse applicati al debito pubblico italiano va cercato da un lato nella speculazione che ha intravisto delle facili ed importanti possibilità di guadagno, ma alla base c’è, com’è ovvio, l’elevatissimo livello di indebitamento pubblico, che fa temere la possibilità di insolvenza, aggravata dal costante deficit dei bilanci pubblici, deficit che non può che ripercuotersi in ulteriore indebitamento.
Ma quali sono le cause di un simile spropositato indebitamento del nostro paese? Innanzi tutto evidentemente la sciagurata ed insensata politica condotta da tutti i governi, di destra, centro o sinistra, che si sono succeduti, in particolare negli ultimi trenta/quaranta anni, come già abbiamo avuto modo di spiegare in una nostra nota di poco tempo fa: aumento sconsiderato dell’imposizione fiscale, cui ha fatto seguito il ristagno generalizzato dell’economia; una politica di welfare assolutamente sproporzionata in relazione ai nostri mezzi, al fine di tenere buoni i sindacati, ed in particolare la CGIL, il più aggressivo, legato ad un partito e ad una ideologia inappellabilmente condannata dalla storia; le insensate assunzioni di personale nell’amministrazione pubblica, a fini esclusivamente elettorali; la creazione di nuovi e totalmente inutili enti pubblici (nuove provincie, comunità montane, consorzi di varia denominazione, inutili università e così via) al solo scopo di fornire terreni di pascolo alla classe politica; pubblicizzazione di molte attività di servizi (acqua, nettezza urbana, trasporti eccetera) sempre allo stesso scopo, e simili se non peggiori insensatezze.
Ma per capire meglio come si è sviluppata questa situazione, che non solo ci penalizza, ma ci fa sfiorare il rischio del fallimento-paese (il “default”, come ormai si usa dire con termine anglosassone) è non solo opportuno, ma assolutamente necessario svolgere un ulteriore ragionamento, che serve anche per comprendere e situare meglio quanto finora detto.
Da studi effettuati da enti ed economisti altamente qualificati, risulta che in Italia solo un gruppo di quattro regioni, tutte situate al nord (Lombardia, Piemonte, Veneto ed Emilia Romagna) presentano un forte attivo, valutato nel complesso a circa 60/70 miliardi di euro annui, fra le somme versate a titolo di imposte e le somme ricevute per la propria gestione. Poche altre regioni più o meno si barcamenano attorno al pareggio. Ciò significa una sola cosa: che tutte le altre regioni, comprese quelle che per motivi inspiegabili continuano a godere di regimi speciali (Valle d’Aosta, Trentino-Alto Adige, Friuli-Venezia Giulia, Sardegna e Sicilia) sono sistematicamente deficitarie. Purtroppo però l’eccedenza delle regioni virtuose non è sufficiente a coprire le spese dello stato centrale ed i deficit delle regioni meno oculate, e quindi i bilanci statali hanno regolarmente presentato dei disavanzi più o meno forti, che, unitamente al peso degli interessi sul debito pregresso, hanno portato alla formazione dell’enorme debito pubblico che ci ritroviamo.
Queste considerazioni porterebbero a trarre una sola conclusione: il nostro spropositato debito pubblico è la diretta conseguenza della cattiva gestione non solo dello stato centrale, ma soprattutto della “finanza allegra e spensierata” della maggior parte delle regioni non “virtuose”, ahimè situate per lo più nelle regioni meridionali. La cosa non sarebbe troppo grave se, grazie ai sacrifici (maggiore imposizione fiscale, rallentamento dello sviluppo eccetera) lo sforzo fatto avesse avuto come risultato l’uscita delle regioni “passive” dalla loro situazione di sottosviluppo ed il loro rilancio.
Purtroppo non è stato così. Tutti sanno per esempio che i dipendenti della regione Sicilia sono senza motivo logico quattro/cinque volte più numerosi di quelli della regione Lombardia, pur con una popolazione che è poco più della metà. Il numero dei forestali della regione Calabria è all’incirca uguale a quelli in servizio nell’intero Canada. Il costo della sanità nelle regioni meridionali è molto superiore a quello delle regioni più virtuose, tuttavia il giudizio che ne danno i locali è di totale sfiducia, tanto che sono innumerevoli i casi di calabresi, siciliani, pugliesi eccetera che preferiscono farsi curare dalle strutture lombarde o venete. E mille altri casi, peraltro ben noti, si potrebbero citare.
E’ invalso l’uso, da decenni, di citare la “questione meridionale” e di sollecitare i più fantasiosi progetti di intervento per porre fine alla differenza di sviluppo fra il nord ed il sud d’Italia. Se quanto si è esposto è almeno in parte vero, se ne deve concludere non solo che lo sforzo finora effettuato in questo senso è stato più che congruo ma del tutto infruttuoso, ma che oggi come oggi il vero problema è la “questione settentrionale”, il cui sviluppo è seriamente frenato, quando non bloccato, dal parassitismo di una parte del nostro paese che ritiene di aver diritto al “pasto gratis”. Ed il problema “spread” è la più evidente e chiara dimostrazione che quanto affermato è una corretta descrizione della necessità di cambiare strada.
Ed è anche la più lampante prova che occorre che l’intera classe politica al potere da decenni e quindi responsabile della catastrofe venga messa da parte, sostituendola con elementi non solo giovani di età (essere giovani non significa essere saggi: anche gli Andreotti ed i Fini sono entrati in politica da giovani…) ma soprattutto portatori di idee e progetti nuovi, un po’ più diretti verso una sana, corretta e giusta gestione della cosa pubblica e meno improntata al perseguimento dell’interesse, economico o politico, personale.
Il Bertoldo

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