Questa parola “di colore
oscuro”, come avrebbe detto il Divino Poeta, è ormai entrata nel nostro lessico
comune. Com’è noto, essa indica la differenza dei tassi di interesse fra i
titoli di stato italiani e tedeschi di analoga durata. Da sempre esso è
positivo, ma solo da poco meno di un anno il suo valore si è impennato, spesso
ben al di sopra dei quattro punti percentuali. Ciò significa che lo stato
italiano per finanziare il suo enorme debito pubblico – oggi superiore al 120%
del PIL – deve pagare interessi molto alti, che incidono pesantemente sui
nostri conti ed in buona parte sono responsabili del perdurante disavanzo.
Il motivo di questi alti
tassi di interesse applicati al debito pubblico italiano va cercato da un lato
nella speculazione che ha intravisto delle facili ed importanti possibilità di
guadagno, ma alla base c’è, com’è ovvio, l’elevatissimo livello di
indebitamento pubblico, che fa temere la possibilità di insolvenza, aggravata
dal costante deficit dei bilanci pubblici, deficit che non può che
ripercuotersi in ulteriore indebitamento.
Ma quali sono le cause di
un simile spropositato indebitamento del nostro paese? Innanzi tutto
evidentemente la sciagurata ed insensata politica condotta da tutti i governi,
di destra, centro o sinistra, che si sono succeduti, in particolare negli
ultimi trenta/quaranta anni, come già abbiamo avuto modo di spiegare in una
nostra nota di poco tempo fa: aumento sconsiderato dell’imposizione fiscale,
cui ha fatto seguito il ristagno generalizzato dell’economia; una politica di
welfare assolutamente sproporzionata in relazione ai nostri mezzi, al fine di
tenere buoni i sindacati, ed in particolare la CGIL, il più aggressivo, legato
ad un partito e ad una ideologia inappellabilmente condannata dalla storia; le
insensate assunzioni di personale nell’amministrazione pubblica, a fini
esclusivamente elettorali; la creazione di nuovi e totalmente inutili enti
pubblici (nuove provincie, comunità montane, consorzi di varia denominazione,
inutili università e così via) al solo scopo di fornire terreni di pascolo alla
classe politica; pubblicizzazione di molte attività di servizi (acqua, nettezza
urbana, trasporti eccetera) sempre allo stesso scopo, e simili se non peggiori
insensatezze.
Ma per capire meglio come
si è sviluppata questa situazione, che non solo ci penalizza, ma ci fa sfiorare
il rischio del fallimento-paese (il “default”, come ormai si usa dire con
termine anglosassone) è non solo opportuno, ma assolutamente necessario
svolgere un ulteriore ragionamento, che serve anche per comprendere e situare
meglio quanto finora detto.
Da studi effettuati da enti
ed economisti altamente qualificati, risulta che in Italia solo un gruppo di
quattro regioni, tutte situate al nord (Lombardia, Piemonte, Veneto ed Emilia
Romagna) presentano un forte attivo, valutato nel complesso a circa 60/70
miliardi di euro annui, fra le somme versate a titolo di imposte e le somme
ricevute per la propria gestione. Poche altre regioni più o meno si barcamenano
attorno al pareggio. Ciò significa una sola cosa: che tutte le altre regioni,
comprese quelle che per motivi inspiegabili continuano a godere di regimi
speciali (Valle d’Aosta, Trentino-Alto Adige, Friuli-Venezia Giulia, Sardegna e
Sicilia) sono sistematicamente deficitarie. Purtroppo però l’eccedenza delle
regioni virtuose non è sufficiente a coprire le spese dello stato centrale ed i
deficit delle regioni meno oculate, e quindi i bilanci statali hanno
regolarmente presentato dei disavanzi più o meno forti, che, unitamente al peso
degli interessi sul debito pregresso, hanno portato alla formazione dell’enorme
debito pubblico che ci ritroviamo.
Queste considerazioni
porterebbero a trarre una sola conclusione: il nostro spropositato debito
pubblico è la diretta conseguenza della cattiva gestione non solo dello stato
centrale, ma soprattutto della “finanza allegra e spensierata” della maggior
parte delle regioni non “virtuose”, ahimè situate per lo più nelle regioni
meridionali. La cosa non sarebbe troppo grave se, grazie ai sacrifici (maggiore
imposizione fiscale, rallentamento dello sviluppo eccetera) lo sforzo fatto
avesse avuto come risultato l’uscita delle regioni “passive” dalla loro
situazione di sottosviluppo ed il loro rilancio.
Purtroppo non è stato così.
Tutti sanno per esempio che i dipendenti della regione Sicilia sono senza
motivo logico quattro/cinque volte più numerosi di quelli della regione
Lombardia, pur con una popolazione che è poco più della metà. Il numero dei
forestali della regione Calabria è all’incirca uguale a quelli in servizio
nell’intero Canada. Il costo della sanità nelle regioni meridionali è molto
superiore a quello delle regioni più virtuose, tuttavia il giudizio che ne
danno i locali è di totale sfiducia, tanto che sono innumerevoli i casi di
calabresi, siciliani, pugliesi eccetera che preferiscono farsi curare dalle
strutture lombarde o venete. E mille altri casi, peraltro ben noti, si
potrebbero citare.
E’ invalso l’uso, da
decenni, di citare la “questione meridionale” e di sollecitare i più fantasiosi
progetti di intervento per porre fine alla differenza di sviluppo fra il nord
ed il sud d’Italia. Se quanto si è esposto è almeno in parte vero, se ne deve
concludere non solo che lo sforzo finora effettuato in questo senso è stato più
che congruo ma del tutto infruttuoso, ma che oggi come oggi il vero problema è
la “questione settentrionale”, il cui sviluppo è seriamente frenato, quando non
bloccato, dal parassitismo di una parte del nostro paese che ritiene di aver
diritto al “pasto gratis”. Ed il problema “spread” è la più evidente e chiara
dimostrazione che quanto affermato è una corretta descrizione della necessità
di cambiare strada.
Ed è anche la più lampante
prova che occorre che l’intera classe politica al potere da decenni e quindi
responsabile della catastrofe venga messa da parte, sostituendola con elementi
non solo giovani di età (essere giovani non significa essere saggi: anche gli
Andreotti ed i Fini sono entrati in politica da giovani…) ma soprattutto
portatori di idee e progetti nuovi, un po’ più diretti verso una sana, corretta
e giusta gestione della cosa pubblica e meno improntata al perseguimento
dell’interesse, economico o politico, personale.
Il Bertoldo
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