In
principio c’era l’IGE, introdotta
nel 1940 sostituendo l'imposta unica sugli scambi commerciali. Essa era un
tributo plurifase sul valore pieno e si applicava sui trasferimenti dei beni in
tutto il loro valore, e non solamente su quello aggiunto. Quando essa venne
abolita nel 1973 l’aliquota era del 4%, e fu sostituita dall’IVA.
All'entrata in vigore, il_1º gennaio 1973, l'aliquota IVA ordinaria, ovvero per la maggior parte di beni o servizi, era il 12%, portata al 14% nel 1977, al 15%
nel 1980, al 18% nel 1982, al 19% nel 1988, al 20% nel 1997 e per ultimo, con
applicazione dal 17 settembre, l'aliquota ordinaria è salita di 1 punto
percentuale arrivando al 21%.
Si ritenne opportuno abbandonare il concetto
IGE perché si trattava di un tributo plurifase sul
valore pieno e si imponeva su tutti i successivi passaggi dei beni in tutto il loro valore, e non
solamente su quello aggiunto ad ogni fase del processo produttivo,
svantaggiando i sistemi produttivi che non effettuavano l’intero ciclo di
produzione e seguendo quindi ogni passaggio fino alla vendita finale. Invece
l’IVA, applicandosi unicamente al valore aggiunto, si pensò che fosse meno
penalizzante. In realtà, ipotizzando una produzione di un qualsiasi bene
suddivisa in cinque fasi, l’IGE al 4%
come era nel 1973 equivaleva più o meno esattamente al 12% dell’IVA iniziale.
Ma tralasciando gli aspetti
puramente tecnici e storici occorre fare una considerazione a nostro avviso
molto importante. L’IVA viene considerata un’imposta sulle transazioni
commerciali, mentre in realtà essa sembra essere una sovrimposta sui redditi
del tutto anomala.
Consideriamo come si possono
analizzare gli elementi che compongono una transazione commerciale. Il prezzo
di un qualsiasi prodotto o servizio è costituito dai costi sostenuti dal
venditore, più o meno il suo profitto o la sua perdita. In cosa consistono i
suoi costi? Essi consistono sostanzialmente nel prezzo da lui pagato per ciò
che ha acquistato all’esterno più i compensi che ha corrisposto ai suoi
collaboratori. Questi compensi costituiscono il loro reddito, tassato alla
fonte per quanto percepito subito e con tassazione differita per i redditi
differiti (TFR e pensione corrispondente ai contributi previdenziali versati).
Andando a ritroso, lo stesso
ragionamento va fatto per quanto pagato da questo imprenditore ai suoi
fornitori. Riassumendo, si può quindi affermare che il prezzo di qualunque
prodotto o servizio acquistato dal consumatore finale è costituito dalla somma
dei redditi di tutti coloro che hanno contribuito alla sua produzione, redditi
che per definizione hanno già assolto o dovranno assolvere in futuro i propri
doveri fiscali.
Quindi l’IVA, che viene alla fine
corrisposta dal consumatore finale, costituisce di fatto una sovraimposta
piuttosto pesante sui redditi di tutti coloro che hanno concorso alla
produzione di quel determinato bene. Ma l’anomalia consiste nel fatto che è il
consumatore finale che deve pagare questa imposta non sui propri redditi, ma su redditi
percepiti da altri. Ed inoltre, trattandosi di una imposta proporzionale al
valore della cosa acquistata, essa non risponde (né potrebbe comunque corrispondere)
al criterio di progressività solennemente sancito dalla Costituzione.
Sembra tutto piuttosto strano e con
un certo sapore di presa in giro…
Il Bertoldo
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