Roma, verso la fine del
periodo repubblicano e poi soprattutto durante l’impero, nel suo processo di
espansione adottò una particolare forma di assoggettamento dei territori
conquistati o sottomessi, forma che del resto nell’antichità era utilizzata da
molti altri grandi regni, per esempio dall’impero cinese.
Molti degli stati
indirettamente sottomessi al potere di Roma, talvolta addirittura pe volontà
testamentarie dei rispettivi sovrani, prima di acquisire il titolo di
“provincie”, spesso erano considerati “regni tributari”, che mantenevano in una
limitata misura i propri ordinamenti, ma erano comunque retti da un governatore
romano ed erano soggetti al pagamento di un tributo a Roma. In cambio di ciò,
come elementi costituenti del dominio romano, Roma si impegnava alla loro
difesa, che del resto rappresentava pure una difesa dei possedimenti di Roma
stessa e quindi dell’impero.
Di ciò parla espressamente
l’evangelista Luca quando spiega che la predicazione di Giovanni il Battista
avvenne mentre “Ponzio Pilato governava la Giudea ed Erode era tetrarca della
Galilea” (Luca 3,1) e più avanti riferisce che alcuni giudei chiesero a Gesù
“Ci è lecito o no pagare il tributo a Cesare?”
(Luca 20,22) e Gesù rispose con la famosa frase “Date a Cesare quel che
è di Cesare e a Dio quel che è di Dio” (Luca 20, 25).
Il sistema antico ha avuto
una rinascita molto recente, formalmente nel nobile ed apprezzabile tentativo
di costituire un insieme politico che eliminasse ogni pericolo di ripetizione
dei sanguinosi conflitti che più volte e per vari secoli hanno devastato il
nostro continente. Come avrete capito sto accennando alla creazione dell’Unione
Europea, nata come Mercato Comune Europeo, poi divenuta Comunità Economica
Europea, ed infine, per non limitarsi a volgari questioni di mercato, Unione
Europea.
Si tratta come tutti sanno
di una organizzazione il cui vertice esecutivo, pur non disponendo di tutti i
poteri di uno stato nazionale, legifera – per ora solo in campo economico,
fiscale e finanziario – senza alcuna investitura popolare. Il Parlamento
Europeo, unica istituzione formalmente democratica dell’Unione, divenuto nomade
per non scontentare nessuno, sebbene eletto dai cittadini dei paesi
partecipanti, è sprovvisto di qualsiasi effettivo potere.
Naturalmente i paesi
associati sono tenuti a pagare un “tributo” sia per il mantenimento
dell’organizzazione, inutilmente faraonica e quindi assai costosa, ma anche per
intervenire in aiuto dei membri in difficoltà, grazie anche al fatto che la
Banca Centrale Europea, cui è demandato il compito, per quanto riguarda i paesi
della cosiddetta Eurozona, di svolgere le funzioni di controllo sulla
circolazione della moneta, di fatto non dispone delle caratteristiche delle
banche centrali, in particolare quello di essere il prestatore di ultima
istanza.
Anche il nostro paese si
trova sostanzialmente nella condizione di un “regno tributario”: versiamo il
tributo a Cesare (nel nostro caso la UE), abbiamo un re senza poteri (il nostro
Presidente della Repubblica) e da un anno circa un “governatore”, che in tale
sua qualità segue più i diktat della UE, ispirati dalla potenza egemone, la
Germania, che non gli interessi del paese che è stato chiamato (o forse
imposto?) a gestire.
Naturalmente ci sarebbe da
aspettarsi che, in cambio di questo regime da protettorato il nostro paese
potesse godere della necessaria assistenza e protezione in caso di problemi sia
con paesi appartenenti alla UE, sia a più forte ragione con paesi esterni.
L’episodio più recente è quello – di cui si parla quotidianamente - dei due militari italiani detenuti in India
con l’accusa di omicidio nei confronti di due pescatori indiani scambiati per
pirati. Il fatto sarebbe avvenuto in acque internazionali e quindi sembrerebbe
che la giurisdizione debba essere italiana e non indiana. Le nostre proteste –
pacate, per non urtare nessuno – sono cadute nel vuoto, malgrado il
riacquistato prestigio internazionale di cui l’Italia, sotto la guida del nuovo
governo, godrebbe.
Ci si sarebbe aspettato che
l’UE intervenisse in qualche modo presso il governo indiano per sostenere la
posizione dell’Italia: invece niente, ciò che sembra dimostrare che il nostro
prestigio non solo non è stato riacquistato all’estero, ma neppure all’interno
dell’unione cui partecipiamo sia molto alto.
A proposito di questa
dolorosa e spiacevole vicenda vale la pena di notare le alte grida di
indignazione che da ogni parte politica si elevano contro le lungaggini della
magistratura indiana, che rinvia ogni decisione da oltre dieci mesi. Ciò che suscita
l’ilarità è che queste proteste vengano da chi non si è mai accorto delle
lungaggini e dell’indecente pigrizia della nostra magistratura e non ha cercato
minimamente di porre un argine a questa nostra tipica situazione che tanti
danni, economici e morali, ha provocato nel nostro paese e che è la causa non
ultima della riluttanza dei possibili investitori stranieri ad avviare attività
in Italia.
Come diceva una famosa
frase, “medice, cura te ipsum” e soprattutto vale la pena di ricordare
l’evangelica parabola della pagliuzza e della trave.
Il Bertoldo
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