28 gennaio 2013

Capire l' Euro


Consideriamo una qualunque azienda che produca e venda sul mercato un determinato bene. Per sopravvivere occorre che il totale dei costi di produzione venga per lo meno coperto dai ricavi provenienti dalle vendite, ai prezzi e nelle quantità coerenti con le necessità aziendali. Se i ricavi coprono esattamente i costi il bilancio dell’azienda sarà evidentemente in pareggio; se i ricavi eccedono i costi, l’azienda registrerà un utile, che potrà essere distribuito ai soci, oppure servire a rimborsare eventuali debiti, o infine investito per ampliare le possibilità produttive o commerciali.
Se invece i ricavi non sono sufficienti a coprire i costi, l’azienda dovrà registrare una perdita, che potrà essere coperta in vari modi: ristrutturando l’organizzazione al fine di ridurre i costi e migliorare la produttività, oppure facendo appello ai soci perché coprano le perdite o infine ricorrendo all’indebitamento presso le banche. E’ evidente che, continuando le gestioni passive, diventerà sempre più difficile ottenere immissioni di nuovi capitali dai soci o ulteriore credito dalle banche. Pertanto ai gestori non resteranno che due soluzioni: o riorganizzare a fondo  l’azienda in modo da ridarle la competitività perduta oppure rassegnarsi a cessare l’attività. Non esiste alcun altro modo per sopravvivere in queste condizioni.
Completamente diverso è il caso di uno stato che disponga della piena sovranità, compresa quella in campo monetario. Posto che, al contrario di quanto suggerisce il buonsenso, gli stati usano innanzi tutto stabilire quanto intendono o vogliono spendere e solo poi cercano i mezzi necessari per farvi fronte, è evidente che normalmente essi presentano dei deficit di bilancio e sono obbligati a fare ricorso al credito. Tutti i debiti prima o poi, come sanno da sempre anche i cittadini e le aziende, debbono essere rimborsati.
Lo stato sovrano normalmente ricorre al rinnovo del debito oppure all’emissione (vulgo stampa) di nuova moneta. Ciò provoca evidentemente una maggiore o minore inflazione, che se da un lato comporta sacrifici per la popolazione, dall’altro consente di rimborsare i debiti con moneta svalutata. Senza contare naturalmente che periodicamente si realizzano anche svalutazioni ufficiali, che accelerano il processo di svilimento del debito. I creditori si proteggono esigendo interessi più elevati, ma complessivamente, proprio grazie all’inflazione in atto, l’incidenza del debito sul PIL diventa meno pesante. Infatti il PIL, per effetto dell’inflazione, cresce nominalmente più di quanto cresca in termini reali, mentre il debito mantiene il suo valore nominale. E quindi l’allegra gestione può continuare all’infinito.
Quando però uno stato decide di rinunciare alla propria sovranità monetaria ed adotta una moneta sulla quale non ha alcun potere decisionale, com’è il caso dei paesi che hanno aderito all’eurozona, adottando come moneta comune l’Euro, le cose cambiano radicalmente. Lo stato viene a trovarsi in una condizione simile a quella dell’azienda cui abbiamo accennato all’inizio. Non avendo la possibilità di coprire autonomamente i propri debiti ricorrendo all’emissione di nuova moneta, e non potendo – per impossibilità giuridica – giungere alla liquidazione finale con la conseguente propria scomparsa, esso dovrà gestirsi come farebbe qualsiasi azienda: riorganizzandosi in modo da rendere compatibili i propri costi con le possibili entrate. Viene così a mancare la possibilità di fare il passo più lungo della gamba.
Purtroppo tutti i governanti italiani (e non solo) siano essi politici di professione od accademici (tanto per citarne qualcuno a caso, i professori Romano Prodi, Mario Monti e Vincenzo Visco) non hanno voluto o potuto rinunciare alle lusinghe (in termini elettorali) della finanza allegra, e, senza tenere conto – o forse senza averne capito a fondo la reale portata – della situazione completamente diversa sul piano finanziario, hanno continuato come se nulla fosse ad accumulare deficit di bilancio e quindi ad aumentare il debito complessivo, la cui incidenza sul PIL non può più essere truccata né il suo valore surrettiziamente ridotto in termini reali ricorrendo all’inflazione. O addirittura a svalutazioni ufficiali ed unilaterali.
Divenendo in tal modo sempre più difficile il ricorso a prestatori terzi, si è ricorsi alla cosiddetta politica del rigore, prelevando fiscalmente quote crescenti del prodotto nazionale ed innescando in tal modo una spirale di decrescita che trascina inevitabilmente il paese alla recessione ed alla crisi, rendendo in tal modo ancor più difficile il reperimento di fondi attraverso il prelievo fiscale. Naturalmente non hanno capito, o hanno fatto finta di non capire, che il rigore imposto dall’appartenenza ad un sistema monetario con moneta unica doveva intendersi nei confronti della gestione dello stato e non nei confronti delle tasche dei cittadini, esattamente come il rigore imposto dalle circostanze ad un’azienda deficitaria non può essere attuato aumentando sconsideratamente i prezzi dei beni prodotti. Ed è proprio quello che ha fatto il governo dei “tecnici”, aumentando a pioggia il prelievo fiscale.
Peraltro queste conseguenze erano state previste – senza che i responsabili del governo, di qualunque colore politico, se ne siano mai dati pensiero – dal Trattato di Maastricht, istitutivo dell’Euro, che prevedeva vari ovvii principi fondamentali sul livello dell’indebitamento totale, sulle dimensioni dell’eventuale disavanzo di bilancio, sul livello dell’inflazione, sull’andamento dei tassi di interesse, tutte disposizioni totalmente disattese.
E le conseguenze non solo si vedono ma si stanno pagando sulla pelle di tutti. Tuttavia non un cenno viene fatto da alcun contendente alle prossime elezioni  in merito alla necessità di una profonda e radicale riorganizzazione dello stato con riduzione drastica degli sprechi, dei costi, delle malversazioni e degli ingiustificati privilegi di cui godono spudoratamente alcuni a spese di molti altri.
 Il Bertoldo

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