Consideriamo una qualunque
azienda che produca e venda sul mercato un determinato bene. Per sopravvivere
occorre che il totale dei costi di produzione venga per lo meno coperto dai
ricavi provenienti dalle vendite, ai prezzi e nelle quantità coerenti con le
necessità aziendali. Se i ricavi coprono esattamente i costi il bilancio
dell’azienda sarà evidentemente in pareggio; se i ricavi eccedono i costi,
l’azienda registrerà un utile, che potrà essere distribuito ai soci, oppure
servire a rimborsare eventuali debiti, o infine investito per ampliare le
possibilità produttive o commerciali.
Se invece i ricavi non sono
sufficienti a coprire i costi, l’azienda dovrà registrare una perdita, che
potrà essere coperta in vari modi: ristrutturando l’organizzazione al fine di
ridurre i costi e migliorare la produttività, oppure facendo appello ai soci
perché coprano le perdite o infine ricorrendo all’indebitamento presso le
banche. E’ evidente che, continuando le gestioni passive, diventerà sempre più difficile
ottenere immissioni di nuovi capitali dai soci o ulteriore credito dalle
banche. Pertanto ai gestori non resteranno che due soluzioni: o riorganizzare a
fondo l’azienda in modo da ridarle la
competitività perduta oppure rassegnarsi a cessare l’attività. Non esiste alcun
altro modo per sopravvivere in queste condizioni.
Completamente diverso è il
caso di uno stato che disponga della piena sovranità, compresa quella in campo
monetario. Posto che, al contrario di quanto suggerisce il buonsenso, gli stati
usano innanzi tutto stabilire quanto intendono o vogliono spendere e solo poi
cercano i mezzi necessari per farvi fronte, è evidente che normalmente essi
presentano dei deficit di bilancio e sono obbligati a fare ricorso al credito.
Tutti i debiti prima o poi, come sanno da sempre anche i cittadini e le
aziende, debbono essere rimborsati.
Lo stato sovrano
normalmente ricorre al rinnovo del debito oppure all’emissione (vulgo stampa)
di nuova moneta. Ciò provoca evidentemente una maggiore o minore inflazione,
che se da un lato comporta sacrifici per la popolazione, dall’altro consente di
rimborsare i debiti con moneta svalutata. Senza contare naturalmente che
periodicamente si realizzano anche svalutazioni ufficiali, che accelerano il
processo di svilimento del debito. I creditori si proteggono esigendo interessi
più elevati, ma complessivamente, proprio grazie all’inflazione in atto,
l’incidenza del debito sul PIL diventa meno pesante. Infatti il PIL, per
effetto dell’inflazione, cresce nominalmente più di quanto cresca in termini
reali, mentre il debito mantiene il suo valore nominale. E quindi l’allegra
gestione può continuare all’infinito.
Quando però uno stato
decide di rinunciare alla propria sovranità monetaria ed adotta una moneta
sulla quale non ha alcun potere decisionale, com’è il caso dei paesi che hanno
aderito all’eurozona, adottando come moneta comune l’Euro, le cose cambiano
radicalmente. Lo stato viene a trovarsi in una condizione simile a quella
dell’azienda cui abbiamo accennato all’inizio. Non avendo la possibilità di
coprire autonomamente i propri debiti ricorrendo all’emissione di nuova moneta,
e non potendo – per impossibilità giuridica – giungere alla liquidazione finale
con la conseguente propria scomparsa, esso dovrà gestirsi come farebbe
qualsiasi azienda: riorganizzandosi in modo da rendere compatibili i propri
costi con le possibili entrate. Viene così a mancare la possibilità di fare il
passo più lungo della gamba.
Purtroppo tutti i
governanti italiani (e non solo) siano essi politici di professione od
accademici (tanto per citarne qualcuno a caso, i professori Romano Prodi, Mario
Monti e Vincenzo Visco) non hanno voluto o potuto rinunciare alle lusinghe (in
termini elettorali) della finanza allegra, e, senza tenere conto – o forse
senza averne capito a fondo la reale portata – della situazione completamente
diversa sul piano finanziario, hanno continuato come se nulla fosse ad
accumulare deficit di bilancio e quindi ad aumentare il debito complessivo, la
cui incidenza sul PIL non può più essere truccata né il suo valore
surrettiziamente ridotto in termini reali ricorrendo all’inflazione. O
addirittura a svalutazioni ufficiali ed unilaterali.
Divenendo in tal modo
sempre più difficile il ricorso a prestatori terzi, si è ricorsi alla cosiddetta
politica del rigore, prelevando fiscalmente quote crescenti del prodotto
nazionale ed innescando in tal modo una spirale di decrescita che trascina
inevitabilmente il paese alla recessione ed alla crisi, rendendo in tal modo
ancor più difficile il reperimento di fondi attraverso il prelievo fiscale.
Naturalmente non hanno capito, o hanno fatto finta di non capire, che il rigore
imposto dall’appartenenza ad un sistema monetario con moneta unica doveva
intendersi nei confronti della gestione dello stato e non nei confronti delle
tasche dei cittadini, esattamente come il rigore imposto dalle circostanze ad
un’azienda deficitaria non può essere attuato aumentando sconsideratamente i
prezzi dei beni prodotti. Ed è proprio quello che ha fatto il governo dei
“tecnici”, aumentando a pioggia il prelievo fiscale.
Peraltro queste conseguenze
erano state previste – senza che i responsabili del governo, di qualunque
colore politico, se ne siano mai dati pensiero – dal Trattato di Maastricht,
istitutivo dell’Euro, che prevedeva vari ovvii principi fondamentali sul
livello dell’indebitamento totale, sulle dimensioni dell’eventuale disavanzo di
bilancio, sul livello dell’inflazione, sull’andamento dei tassi di interesse,
tutte disposizioni totalmente disattese.
E le conseguenze non solo
si vedono ma si stanno pagando sulla pelle di tutti. Tuttavia non un cenno
viene fatto da alcun contendente alle prossime elezioni in merito alla necessità di una profonda e
radicale riorganizzazione dello stato con riduzione drastica degli sprechi, dei
costi, delle malversazioni e degli ingiustificati privilegi di cui godono
spudoratamente alcuni a spese di molti altri.
Il Bertoldo
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