Nel 1993, su iniziativa del
Partito Radicale, si tenne un referendum per l’abolizione del finanziamento
pubblico ai partiti. L’esito fu quasi plebiscitario: oltre il 90% dei votanti
espresse voto favorevole e la norma relativa venne formalmente abolita.
Naturalmente, dato il
caratteristico parassitismo che contraddistingue i partiti politici nostrani,
la cosa fu accolta molto male dai soggetti interessati, e già nel dicembre
dello stesso anno, disattendendo completamente la volontà popolare (“La
sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della
Costituzione”, art. 1, 2° comma della costituzione più bella del mondo) fu
varato un provvedimento che introduceva il “rimborso delle spese elettorali”.
Quanto tale legge,
chiaramente fin troppo antidemocratica ed autoritaria, sia stata rispettata dai
partiti è stato messo chiaramente in evidenza dalla Corte dei Conti. Dal 1994,
data di entrata in vigore della nuova legge, fino al 2008 i “rimborsi”
ammontarono a ben 2.253.612.233 euro a fronte di spese riconosciute per
579.004.383 euro: mancano all’appello solo per quel periodo ben 1.674.607.850
euro. Non esistono prove che il fenomeno sia cessato negli anni più recenti.
Da qualche tempo anche da
parte di alcune parti politiche si esprime la necessità di abolire la norma che
ha dato luogo a tanti abusi, che in minima parte la magistratura sta portando
alla luce, soprattutto se vi sono coinvolti soggetti non appartenenti a
correnti di sinistra. Il governo di ampia coalizione recentemente nominato ha
fatto sua, almeno a parole, questa esigenza e si appresta a formulare proposte
per la rimozione di questo scandalo.
Immediatamente da parte di
alcuni esponenti del PD si è obiettato che l’adozione di provvedimenti nel
senso indicato porterebbe all’immediato licenziamento di ben 180 dipendenti del
partito, e ciò in un momento di grave crisi occupazionale. Chiaro l’autogol:
cosa c’entrano i dipendenti “fissi” con il rimborso delle spese elettorali per
loro natura episodiche?
Ma non andiamo meglio con
le proposte che si affacciano in sede governativa. A parole si afferma che i
partiti devono essere finanziati privatamente dai propri aderenti e
simpatizzanti (la cosa già avviene largamente con l’enorme giro di tangenti e
finanziamenti inconfessabili e per ciò stesso occulti), ma in realtà le
proposte formulate vanno tutte nella direzione di addossare allo stato tutto o
la maggior parte dell’onere.
Da un lato si propone di
favorire il finanziamento privato, incoraggiandolo con una ampia quota di
detraibilità fiscale. In questo modo tutta la parte dei contributi privati
esclusa dalla tassazione comporta evidentemente una minore entrata erariale.
Poi, in aggiunta od in alternativa, si vorrebbe proporre la destinazione di un
1 per mille ai partiti, analogamente a quanto già avviene con le aliquote
dell’8 e del 5 per mille per altre istituzioni. Dato che questo 1 per mille
verrebbe dallo stato pagato con le proprie entrate, non si vede cosa in realtà
cambierebbe rispetto ad ora.
Se proprio si vuol
disattendere la volontà popolare espressa nel referendum del 1993, non sarebbe
meglio riportare il rimborso delle cosiddette spese elettorali alla sua vera
natura: rimborso “a piè di lista” delle spese effettivamente sostenute e
controllate dalla Corte dei Conti con la stessa occhiuta severità usata in
molti altri casi. In fin dei conti, i partiti politici non sono altro che delle
organizzazioni private.
Comunque si guardino le
soluzioni che, più o meno ingegnosamente, si prospettano da parte del governo o degli stessi partiti,
viene in mente il vecchio detto: “se non è zuppa è ban bagnato”, alla faccia
della tanto decantata sovranità popolare.
Il Bertoldo
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