03 giugno 2013

Prese in giro

Nel 1993, su iniziativa del Partito Radicale, si tenne un referendum per l’abolizione del finanziamento pubblico ai partiti. L’esito fu quasi plebiscitario: oltre il 90% dei votanti espresse voto favorevole e la norma relativa venne formalmente abolita.
Naturalmente, dato il caratteristico parassitismo che contraddistingue i partiti politici nostrani, la cosa fu accolta molto male dai soggetti interessati, e già nel dicembre dello stesso anno, disattendendo completamente la volontà popolare (“La sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione”, art. 1, 2° comma della costituzione più bella del mondo) fu varato un provvedimento che introduceva il “rimborso delle spese elettorali”.
Quanto tale legge, chiaramente fin troppo antidemocratica ed autoritaria, sia stata rispettata dai partiti è stato messo chiaramente in evidenza dalla Corte dei Conti. Dal 1994, data di entrata in vigore della nuova legge, fino al 2008 i “rimborsi” ammontarono a ben 2.253.612.233 euro a fronte di spese riconosciute per 579.004.383 euro: mancano all’appello solo per quel periodo ben 1.674.607.850 euro. Non esistono prove che il fenomeno sia cessato negli anni più recenti.
Da qualche tempo anche da parte di alcune parti politiche si esprime la necessità di abolire la norma che ha dato luogo a tanti abusi, che in minima parte la magistratura sta portando alla luce, soprattutto se vi sono coinvolti soggetti non appartenenti a correnti di sinistra. Il governo di ampia coalizione recentemente nominato ha fatto sua, almeno a parole, questa esigenza e si appresta a formulare proposte per la rimozione di questo scandalo.
Immediatamente da parte di alcuni esponenti del PD si è obiettato che l’adozione di provvedimenti nel senso indicato porterebbe all’immediato licenziamento di ben 180 dipendenti del partito, e ciò in un momento di grave crisi occupazionale. Chiaro l’autogol: cosa c’entrano i dipendenti “fissi” con il rimborso delle spese elettorali per loro natura episodiche?
Ma non andiamo meglio con le proposte che si affacciano in sede governativa. A parole si afferma che i partiti devono essere finanziati privatamente dai propri aderenti e simpatizzanti (la cosa già avviene largamente con l’enorme giro di tangenti e finanziamenti inconfessabili e per ciò stesso occulti), ma in realtà le proposte formulate vanno tutte nella direzione di addossare allo stato tutto o la maggior parte dell’onere.
Da un lato si propone di favorire il finanziamento privato, incoraggiandolo con una ampia quota di detraibilità fiscale. In questo modo tutta la parte dei contributi privati esclusa dalla tassazione comporta evidentemente una minore entrata erariale. Poi, in aggiunta od in alternativa, si vorrebbe proporre la destinazione di un 1 per mille ai partiti, analogamente a quanto già avviene con le aliquote dell’8 e del 5 per mille per altre istituzioni. Dato che questo 1 per mille verrebbe dallo stato pagato con le proprie entrate, non si vede cosa in realtà cambierebbe rispetto ad ora.
Se proprio si vuol disattendere la volontà popolare espressa nel referendum del 1993, non sarebbe meglio riportare il rimborso delle cosiddette spese elettorali alla sua vera natura: rimborso “a piè di lista” delle spese effettivamente sostenute e controllate dalla Corte dei Conti con la stessa occhiuta severità usata in molti altri casi. In fin dei conti, i partiti politici non sono altro che delle organizzazioni private.

Comunque si guardino le soluzioni che, più o meno ingegnosamente, si prospettano  da parte del governo o degli stessi partiti, viene in mente il vecchio detto: “se non è zuppa è ban bagnato”, alla faccia della tanto decantata sovranità popolare.
Il Bertoldo

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