09 settembre 2006

Buona Amministrazione

Un articolo di Augusto Fei

In ogni famiglia dotata di buon senso e correttezza la gestione famigliare risponde normalmente a delle semplici ed intuitive regole.
Innanzitutto si calcola su quali entrate il nucleo famigliare può contare nel corso dell’anno; in base a questa previsione si determina quale sarà il tenore di vita che consentirà di non trovarsi nella necessità di indebitarsi (la propria “capacità di spessa”). Eventualmente si progettano delle spese parzialmente finanziate dall’esterno solo se si tratta di acquisti di beni durevoli o di determinati investimenti: acquisto della casa, automobile, lavori di rinnovo, mobili eccetera, sempre tenendo tuttavia presente che i debiti, mutui compresi, dovranno essere rimborsati, e che quindi nella determinazione del tenore di vita che ci si può permettere occorrerà mettere in conto quanto occorrerà per il “servizio del debito”.
In tal modo questa famiglia – che rappresenta fortunatamente la grande massa delle famiglie – si atterrà alla sana norma di non far uscire più di quanto può entrare. Come diceva il signor Micawber, se guadagni una sterlina e spendi 19 scellini, sei ricco, se invece ne spendi 21, sei destinato alla povertà.
Queste semplici regole di comportamento sembra però che non valgano per quanto riguarda la cosa pubblica. Nel settore pubblico ci si comporta esattamente al contrario. Prima si stabilisce quanto si vuole spendere (quindi il “tenore di vita” che ci si vuole concedere) e poi, in base a questa determinazione si cercano le entrate per chiudere il cerchio. Questo modo di procedere è reso possibile dal fatto che le entrate, per l’ente pubblico, è il caso di ricordarlo, sono rappresentate dalle tasse imposte ai cittadini: basta quindi lasciare meno soldi ai cittadini, per raccogliere qualche cosa in più. Se poi, per i più svariati motivi , non si riesce a raccogliere abbastanza tasse per coprire le spese, non si procede, come sarebbe logico, ad una riduzione delle spese, ma si ricorre all’indebitamento.
Va ricordato che la determinazione del livello di spesa che si vuole effettuare nell’esercizio molto spesso non risponde alle effettive necessità del paese, ma piuttosto ad interessi settoriali di minoranze spesso esigue, ad interessi elettorali e ad altre motivazioni di carattere se non biasimevole certamente non di interesse generale. Infine è evidente che il ricorso all’indebitamento provoca una spirale perversa, perché diventa necessario pagare interessi sul debito, e quindi si appesantisce in tal modo il livello delle spese “obbligatorie”, e si è perciò costretti a ricorrere ad un incremento della tassazione oppure ad un ulteriore indebitamento.
Questi sono i motivi per i quali nel nostro paese abbiamo contemporaneamente un alto livello di tassazione (se si comprendono sotto questa voce tutti i tributi, contributi e balzelli vari, statali, regionali, provinciali e comunali) ed il più alto livello di indebitamento in Europa, indebitamento che supera abbondantemente il PIL. La conseguenza di questo stato di cose – che generalmente viene definito “finanza allegra” - è stato e continua ad essere la sottrazione di ingenti risorse sia ai consumi, con conseguenze nefaste sulla produzione di ricchezza, sia, e la cosa è ancor più grave, all’investimento, pubblico e privato, ed in tal modo si pone un grave freno allo sviluppo economico e si provoca una seria perdita di competitività del nostro sistema nei confronti del resto del mondo.
Per quanto riguarda poi l’altissimo livello di indebitamento del nostro sistema, sembra ragionevole pensare che esso non potrà mai essere realmente rimborsato a coloro che hanno investito in titoli di stato. Infatti, ipotizzando di ridurre a livelli più ragionevoli l’indebitamento stesso, per esempio al 50% del PIL, occorre prevedere il rimborso di un importo pari a circa il 60% del PIL. Supponendo di pianificare un rimborso in venti anni, occorre prevedere di rimborsare un importo pari al 3% del PIL ogni anno. Dato che il deficit del bilancio statale, e quindi il nuovo indebitamento, si aggira intorno al 3% del PIL, quando non raggiunge livelli anche superiori, il rimborso, secondo l’ipotesi formulata in precedenza, richiederebbe un miglioramento dei conti statali pari ad almeno il 6% del PIL.
Sappiamo peraltro che il prelievo fiscale totale si aggira intorno al 43% del PIL stimato, che comprende circa un 20% di “sommerso”; ciò significa che il prelievo pubblico dovrebbe attestarsi a poco meno del 50% del PIL stimato, e quindi a circa il 60% della quota di PIL ufficialmente dichiarata dai contribuenti (“sommerso” escluso). Dato che un prelievo di tale livello non può evidentemente essere effettuato senza portare inevitabilmente al fallimento l’intero paese, è da ritenersi del tutto chimerico ed impossibile il rientro in misura accettabile del debito pubblico, anche tenendo conto del fatto che il debito si svaluta ogni anno di una percentuale pari all’inflazione. A meno che non si provveda ad una drastica riduzione delle spese, rientrando nella logica del “buon padre di famiglia” indicata all’inizio. Tutto ciò può ottenersi solo ripensando e rivoltando completamente l’organizzazione dello stato e dei poteri pubblici, cosa impensabile da parte di una classe politica e parapolitica avida ed incompetente, attenta unicamente ai propri successi elettorali ed alla perpetuazione del proprio potere.
E’ quindi evidente che unicamente cambiando in modo radicale non solo le regole, ma soprattutto la mentalità prevalente oggi nella classe politica, e riducendo al minimo indispensabile l’influenza del settore pubblico nell’economia e nella vita dei cittadini sarà possibile avviare un ciclo virtuoso che ridia slancio allo sviluppo del paese e ne accresca la capacità competitiva nel mondo globalizzato odierno.

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