18 ottobre 2007

A pie' di lista

L’Unioncamere del Veneto ha pubblicato un interessante e documentato libretto intitolato “I costi del non federalismo”, nel quale viene svolta una attenta analisi della situazione fiscale italiana su base regionale, purtroppo limitata, in genere, ai dati del 2003. Il quadro che ne risulta è a dir poco sconcertante.
Tra tutti un dato emerge in modo assolutamente clamoroso: la differenza fra quanto le amministrazioni pubbliche, a qualunque livello ed a qualunque titolo, riscuotono in ciascuna regione e quanto in ognuna di esse erogano. Tre regioni da sole, Lombardia (30 miliardi), Veneto (11,5 miliardi) ed Emilia Romagna (10,5 miliardi) per un totale di circa 52 miliardi di euro, contribuiscono al finanziamento di tutte le altre, con l’esclusione di Piemonte, Toscana e Marche che si trovano praticamente in equilibrio. In aggiunta a questo determinante contributo al mantenimento delle regioni in deficit, le amministrazioni pubbliche, nel 2003, hanno dovuto prevvedere a reperire, attraverso l’indebitamento, oltre 15 miliardi per pareggiare il conto. Tale somma corrisponde all’incirca al deficit della sola Sicilia.
Questa situazione abnorme, che nel 2003 ha sottratto all’intero paese enormi risorse – qualcosa come i 52 miliardi di euro di cui si già detto – che avrebbero potuto essere più utilmente consacrate ad investimenti, pubblici o privati, certamente produttori di maggior reddito, per destinarle evidentemente a consumi del tutto improduttivi, sprechi, privilegi immeritati ma costosi e favoritismi clientelari. Al fine di approfondire il problema vale la pena di citare alcuni altri dati. Mentre la pressione fiscale media in Italia si valutava nel 32,3%, essa saliva al 35,7% in Lombardia, per scendere gradualmente fino al 26% della Basilicata e della provincia autonoma di Bolzano.
Altro dato importante è quello relativo alle spese di funzionamento delle regioni per abitante. A fronte di un costo medio di 133 euro nel 2003 (peraltro in crescita, anno dopo anno, di circa il 7%, ben superiore al tasso di inflazione) troviamo solo 7 regioni (sempre le stesse) al di sotto della media nazionale, mentre tutte le altre sono al disopra, fino a toccare un massimo di 374 euro per abitante nel Molise. Se analizziamo poi il numero di dipendenti regionali in rapporto alla popolazione, constatiamo che a fronte di una media nazionale di 99 dipendenti per 100.000 abitanti, abbiamo le solite sette regioni al di sotto della media, con un minimo di 43 dipendenti per la Lombardia, e le altre tutte al disopra della media nazionale, fino al massimo di 294 in Molise e 255 in Calabria. Analogo discorso può farsi a proposito delle retribuzioni del personale dipendente dalle regioni, generalmente più elevate nelle regioni a maggior densità di personale ed a più alto passivo, naturalmente senza tenere conto dei differenti livelli del costo della vita.
Infine un’ultima chicca. Nel periodo 1996-2003 il totale dei residui fiscali negativi delle regioni in disavanzo ha raggiunto circa 530 miliardi di euro, e solo l’intervento delle solite regioni “virtuose” ha permesso di contenere il deficit a circa 240 miliardi.
A conclusione di queste brevissime note, si può rilevare che in buona parte dell’Italia, se si escludono le regioni del nord, è invalso il criterio di spendere “a piè di lista”, tanto c’è sempre chi, col proprio lavoro, col proprio spirito di intrapresa e con la propria organizzazione, coprirà tutte le spese. Questo criterio appare tanto più ingiusto ed irrazionale se si considera che in tal modo non solo si appesantisce enormemente la gestione delle regioni più produttive, ma, attraverso gli sprechi ed i favori clientelari, si disperdono ricchezze importanti che potrebbero consentire un ben diverso ritmo di sviluppo – ormai vicino allo zero – sia attraverso un deciso incremento degli investimenti infrastrutturali pubblici nelle regioni più produttive, che ormai soffrono di sintomi di strangolamento, sia diminuendo la pressione fiscale a tutti i livelli, al fine di lasciare maggiori mezzi finanziari ai cittadini ed alle aziende che non mancherebbero di investirli con tassi di rendimento e produttività ben diversi da quelli realizzati dagli organismi pubblici, incrementando in tal modo in maniera corretta il PIL e quindi anche le entrate fiscali
A livello generale, va poi rilevato che non sembra adeguato al nostro paese un esercito di oltre 3.500.000 dipendenti pubblici, il cui costo è rappresentato non solo dalle retribuzioni e spese connesse, ma soprattutto dalla totale inefficienza dovuta all’esagerato affollamento degli uffici ed alle bizantine e costose procedure che una così pletorica burocrazia escogita per giustificare la propria esistenza.
Purtroppo però ogni speranza che la situazione possa, sia pur lentamente, evolversi in senso positivo è annullata dal fatto che la maggioranza delle istituzioni legislative ed esecutive che dovrebbero farsi carico del processo di razionalizzazione e di risparmio proviene proprio dalle regioni d’Italia ove più radicato è il concetto “spendi pure come vuoi, tanto c’è chi si dà da fare per pagare anche le tue spese, senza chiedere – almeno finora – nulla in cambio”.
Lo studio completo

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