17 agosto 2011

Debiti e Patrimonio

Continua a monopolizzare l’attenzione, negli ambienti politici ed economici, il problema della grave crisi che attanaglia tutto il mondo, sviluppato e non. In particolare, per quanto riguarda l’Italia, il governo, naturalmente tra le feroci critiche dell’opposizione più becera che contravviene alla norma tacita che impone di unire gli sforzi per soccorrere comunque chi è in difficoltà o in pericolo – e non intendiamo il governo ma l’intero paese - si propone di ottenere il pareggio di bilancio non più nel 2014, cosa che significherebbe rimandare la patata bollente a chi sarà prossimamente chiamato a governare, ma entro il 2013.
La decisione sembra aver soddisfatto i maggiori paesi dell’eurozona e gli organismi internazionali, come dimostra anche il fatto che per sostenere l’azione del nostro governo la Banca Centrale Europea è stata autorizzata ad investire somme importanti nell’acquisto di titoli del tesoro italiano, al fine di attenuare la pressione che si è ultimamente manifestata sui tassi di interesse dei titoli stessi.
Naturalmente, com’è noto, la “manovra” messa in cantiere per raggiungere il risultato prefissato consiste in alcuni tagli di spesa (ahimé a carico dei pensionati, compreso il Presidente della Repubblica che rinuncerà all’adeguamento annuale del suo trattamento…) ed in varie nuove tasse che ovviamente aumenteranno la percentuale di prelievo pubblico sul PIL, con il probabile risultato che l’auspicato pareggio del bilancio statale, in queste condizioni, possa ulteriormente frenare lo sviluppo economico generale.
Ma a parte queste considerazioni, già esposte da innumerevoli commentatori, più o meno competenti in materia, una osservazione si impone. Il pareggio di bilancio è certamente un’ottima cosa, ed avrebbe dovuto costituire l’obbiettivo di qualunque governo già da tempo. Però, come è universalmente noto, la finanza allegra perseguita per decenni ha originato la vera palla al piede della nostra economia, costituita dallo smisurato debito pubblico, che rappresenta ormai circa il 120% del PIL, pari a circa 1.800 miliardi di euro. Ne consegue che un aumento generalizzato dei tassi di interesse di un solo punto rappresenterebbe un costo supplementare di 18 miliardi. E’ chiaro che un tale aumento non peserebbe sui titoli già in circolazione, che per converso perderebbero parte del loro valore, distruggendo una parte del risparmio privato investito in essi.
D’altra parte, pur con il pareggio del bilancio una domanda si pone: come si pensa di rimborsare, almeno in parte, tale immenso debito, se non ci saranno surplus da investire in questa operazione? E’ pur vero che, grazie all’inflazione, la tassa più iniqua che esista, il valore reale del debito tenderà a diminuire, ma dobbiamo pur sempre constatare che in queste condizioni il debito pubblico non ha nessuna possibilità di essere rimborsato, sia pure solo in parte e lentamente, e ciò non può non pesare sulla sua appetibilità e credibilità.
In queste condizioni innanzitutto non resta che augurarsi che, in tempi rapidi e non geologici, si riesca a ridurre effettivamente la spesa pubblica in modo significativo, riportando l’organizzazione dello stato a quelli che sono i suoi veri compiti e lasciando all’iniziativa ed alla responsabilità di ciascuno molto di ciò di cui attualmente, a torto, si fa carico lo stato. Per esempio ripensando in modo non più ideologico, parassitario ed assurdamente assistenziale tutto il cosiddetto “stato sociale”.
Procedendo in questo modo forse si potrebbe invertire il trend di declino del nostro paese, ma non si potrà certo pensare di ridurre il gravosissimo debito pubblico. Ed a questo proposito varrebbe forse la pena di rispolverare una proposta più volte formulata e sempre disattesa. Perché non cedere sul mercato, con la necessaria oculatezza ed evitando di farne lucrare solo i soliti amici, almeno una parte significativa dell’immenso patrimonio immobiliare, troppo spesso del tutto inutilizzato, e la miriade di partecipazioni grandi e piccole di cui gli organismi pubblici, non sempre razionalmente, dispongono (purtroppo troppo spesso al solo fine di sistemare i propri accoliti e gli amici)?
Sarebbe sufficiente che, in pagamento, si accettassero preferibilmente, se non esclusivamente, titoli di stato, al loro valore di mercato, ed una certa graduale riduzione del debito sarebbe assicurata, sempre che si osservi scrupolosamente il proposito di mantenere in pareggio i conti pubblici, non solo quelli centrali, ma tutti, regionali, comunali, provinciali (meglio sarebbe eliminare le provincie) eccetera.
Il Bertoldo

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