25 gennaio 2012

Euro



Sull’euro, da molti mesi, si è scatenata una tempesta internazionale e si ha la precisa impressione che coloro che dovrebbero intervenire per tentare una riscossa non sappiano bene che pesci pigliare, paralizzati da idee preconcette, egoismi nazionalistici e rigurgiti sciovinisti.
Naturalmente le spiegazioni fornite dai politici, dai mezzi di comunicazione e dai cosiddetti “esperti” si sprecano: la proterva ostilità delle agenzie di rating, l’inaffidabilità di alcuni uomini politici (Berlusconi in testa), il contagio della crisi finanziaria americana, la mancanza di liquidità, l’irragionevole condotta di alcuni governi, e via dicendo. A nostro parere molte di queste spiegazioni hanno qualche elemento di verità o per lo meno di verosimiglianza, ma il problema dell’Euro ha ben altre origini, di cui si preferisce non parlare o che si cerca di ignorare.
Per cercare di capire cosa e come possa essere successo, vale la pena di tornare molto indietro nel tempo, al momento della nascita dell’Unione Europea. L’idea che stava alla base di tale iniziativa fu nobilissima: creare le condizioni perché non si ripetessero le tragedie che in circa trent’anni hanno insanguinato per due volte l’Europa e cercare di costruire una entità che ponesse almeno in parte fine alle rivalità tipiche del nostro continente. Il nucleo iniziale comprendeva sei paesi: Germania Occidentale, Francia, Italia, Belgio, Olanda e Lussemburgo, in sostanza quelli che, oltre mille anni prima, avevano costituito l’impero carolingio.
Inizialmente si trattò soprattutto di una zona economica e commerciale comune, con i principi di libera circolazione delle merci e delle persone; infatti il primo nome della nuova costruzione fu MEC (Mercato Europeo Comune), poi modificato in CEE (Comunità Economica Europea). In seguito, a più riprese, vennero ammessi altri paesi, fino a raggiungere il numero di ventisette, e nel frattempo la Germania, grazie alla caduta dell’impero sovietico, si era riunificata (Est ed Ovest), creando la Grande Germania, il paese più grande, più popoloso, più sviluppato ed in definitiva più ricco della Comunità. Purtroppo, nel desiderio di rendere più ampia l’organizzazione, si inserirono molti paesi le cui dimensioni, soprattutto dal punto di vista economico, non erano compatibili con quelle degli altri paesi associati.
Per vari anni la Comunità visse una vita relativamente tranquilla, finché non prevalse l’idea di darle una Costituzione che le conferisse un carattere più politico; la proposta di costituzione venne però respinta dal voto dei cittadini degli unici paesi che abbiano ritenuto giusto e doveroso consultare gli elettori, e quindi non fu mai adottata. Verso la fine dello scorso secolo si fece strada l’idea di dotare la Comunità – che nel frattempo aveva cambiato nome in Unione Europea – di una moneta comune che facilitasse gli scambi e soprattutto che desse al mondo una immagine più consona con l’importanza che essa aveva ormai raggiunto sul piano internazionale in campo economico.
Non appare chiaro per quale motivo si decise di far rinunciare gli stati membri ad una parte importante della propria sovranità – quella di battere moneta – senza peraltro attribuire tale sovranità ad un nuovo organo collegiale: fu solo insipienza oppure, come è verosimile, i paesi aderenti caddero in una trappola creata ad arte da chi avrebbe potuto ricavare un vantaggio da tale vuoto di potere? E d’altra parte, come si può immaginare che ben diciassette paesi dalle dimensioni più disparate, dalla Germania a Malta e Cipro, con condizioni economiche e sociali completamente differenti, possano essere unificati dalla moneta senza alcun coordinamento politico, economico, fiscale e sociale?
Solo diciassette dei ventisette paesi membri dell’UE aderirono al progetto che venne reso esecutivo esattamente dieci anni fa. Molti degli aderenti, fra cui l’Italia, i cui conti già da allora non erano certamente allineati con le norme prescritte, furono semplicemente attratti dalla possibilità di ridurre drasticamente il costo del proprio debito, dato che il tasso di interesse applicato fu praticamente allineato a quello tedesco, molto inferiore al tasso italiano, grazie alla minore inflazione di quel paese rispetto a quella italiana.
Pur di profittare di questo vantaggio piuttosto aleatorio si accettarono tassi di conversione delle singole monete nell’euro del tutto fantasiosi, che, specialmente in Italia, provocarono immediatamente dei cospicui rincari di tutto, naturalmente non rilevati dagli istituti a ciò preposti, al fine di non sforare i criteri di corretta gestione posti alla base della nuova moneta.
Comunque, l’esistenza di una moneta comune a larga parte dell’Europa, una delle maggiori potenze economiche ed industriali del mondo, avrebbe dovuto consentirle di aspirare evidentemente al ruolo di moneta di riserva internazionale, esattamente come lo è il dollaro. E qui occorre fare una breve digressione. In ogni paese il debito pubblico, emesso nella propria moneta, è garantito non solo dallo stato, ma anche dalla Banca Centrale, che ricopre esplicitamente il ruolo di prestatore di ultima istanza, in sostanza immettendo sul mercato, in caso di bisogno, nuova liquidità, con il risultato di fornire all’economia ed allo stato stesso il carburante necessario e di contenere in limiti accettabili i tassi di interesse.
Ciò evidentemente non avviene per quanto riguarda l’euro, dato che, per l’ostinazione della Germania, alla Banca Centrale Europea è stato assegnato l’unico compito di combattere l’inflazione – e quindi di evitare l’immissione sul mercato di nuova liquidità – e non di assicurare il corretto funzionamento del sistema. Assistiamo quindi al curioso fenomeno di una miriade di debiti sovrani espressi nella stessa moneta, emessi con tassi di interesse senza alcun riferimento ai tassi in vigore in altri paesi del gruppo, senza che nessuno dei paesi emittenti abbia alcuna possibilità o potere di influire sull’andamento e la gestione della moneta stessa. Insomma, il nuovo ordine si è trasformato nel caos.
In passato abbiamo assistito ad un fenomeno simile. Dopo l’orgia populista del periodo peronista, l’Argentina cercò una via per tornare ad una politica finanziaria più sana ed ortodossa, e credette di trovarla nel cambio della moneta che venne equiparata al dollaro: 1 peso = 1 dollaro. Ma il governo argentino, ovviamente, non aveva alcuna influenza sulla gestione del dollaro, con la conseguenza che i tassi di interesse argentini si discostarono enormemente dai tassi del dollaro, con gravi conseguenza sui conti pubblici. Il risultato di quell’apparente rimedio fu il totale fallimento finanziario del paese, il completo default, e gravi perdite per tutti coloro che avevano creduto, soprattutto all’estero, nella bontà di quell’”uovo di Colombo”.
Peraltro l’”invenzione” dell’Euro non permise mai alla nuova moneta di assurgere al ruolo di “moneta di riserva” internazionale. Una moneta può definirsi “di riserva” quando in essa vengono principalmente investite le riserve valutarie ed i surplus dei vari paesi. Normalmente, per motivi di tranquillità, tali riserve vengono in maggioranza investite in titoli di stato del paese patria della stessa moneta. Per spiegarci meglio: le riserve valutarie costituite in dollari – la moneta di riserva per eccellenza – sono generalmente investite in titoli di stato americani. In sostanza i detentori di riserve valutarie mantenute in dollari contribuiscono in maniera forse determinante a finanziare il debito pubblico USA.
E’ evidente, per quanto si è detto, che l’Euro non può, finché continua l’attuale situazione, aspirare a diventare moneta di riserva internazionale, in quanto non esiste un unico ente che emetta e garantisca, in nome e per conto di tutta l’Unione, i propri titoli di debito pubblico, né esiste alcuna politica finanziaria e fiscale comune, e neppure, per finire, alcun prestatore di ultima istanza. Da ciò derivano i tassi altissimi che alcuni paesi devono accettare di corrispondere per collocare i propri titoli, ed il fatto che il debito pubblico di ciascun paese rischia di dover essere finanziato in gran parte dal paese stesso, sottraendo in tal modo liquidità al sistema economico e predisponendo il paese al ristagno se non alla depressione.
Ma non solo, nelle condizioni attuali, l’Euro non può aspirare a competere con il dollaro sul piano internazionale: se non si provvederà rapidamente a modificare l’attuale situazione di “né carne né pesce” molti paesi rischiano do fare la fine che già abbiamo descritto parlando dell’Argentina, forse trascinando a fondo anche la moneta comune.
Non è chiaro perché la Cancelliera tedesca si ostini a voler mantenere lo statu quo, o forse è fin troppo chiaro. Essa verosimilmente pensa che l’interesse della Germania e quello dell’Europa coincidano e che ciò che va bene per la Germania vada bene anche per l’Europa. Purtroppo è prevedibile che, se la Germania non accetterà di dare alla struttura dell’eurozona le modifiche che si impongono, le conseguenze potranno essere drammatiche e non solo per i paesi più presi di mira dalla speculazione internazionale (è blasfemo pensare che ci sia anche lo zampino teutonico?). L’aver impedito, con la nascita dell’Euro, le periodiche svalutazioni competitive che consentivano anche ai paesi in difficoltà di sopravvivere sui mercati mondiali ha sostanzialmente giovato solo alla Germania che, per virtù sua, non ne aveva bisogno, ma ne pativa le conseguenze.
D’altra parte, al fine di ottenere il sostegno popolare alla sua intransigenza, la Cancelliera ha diffuso nel suo paese la convinzione che l’accettazione delle proposte degli altri paesi europei (emissione di bonds europei al posto di quelli nazionali e trasformazione della BCE in prestatore di ultima istanza, come negli altri principali paesi del mondo) avrebbe addossato alla Germania l’intero costo delle dissipatezze altrui.
Per quanto riguarda in particolare il nostro paese va ricordato che l’entrata nella zona euro non ha rappresentato, né poteva farlo, l’arrivo nel paese della cuccagna. E’ vero che, almeno per un certo periodo, i tassi a debito dello stato sono stati ben più bassi dei precedenti, ma si sarebbe dovuto approfittare dell’occasione per cambiare completamente strada rispetto alla sciagurata politica economica, fiscale e sociale praticata fino allora. E invece no, avanti con la finanza allegra, a costo di strangolare un sistema economico che in precedenza si era segnalato per la sua vitalità.
Le conseguenze le constatiamo adesso: l’aver accettato ad occhi chiusi una impostazione del tutto incoerente – malgrado i governanti di allora fossero dei professori, dei tecnici, insomma -, il non aver tirato i remi in barca, il non aver provveduto allora a realizzare quelle riforme che si sarebbero potuto fare in un momento di relativo benessere ci ha ridotti nelle condizioni attuali: tassi di interesse alle stelle, come prima dell’entrata nel “paradiso” dell’Euro, una economia in grave crisi, ed una moneta – non nostra – che non si sa bene che fine farà, e che anche se si salverà provocherà dei costi altissimi.
Il Bertoldo

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