Tutti sappiamo che la campagna elettorale dura ormai da circa sei mesi. Le elezioni si sono svolte a tempo debito e nessuno ha vinto, il sistema bipolare si è trasformato in un sistema tripolare, con tre forze più o meno equivalenti come peso elettorale. La cosa non sarebbe particolarmente grave se, al momento di cercare una via per costituire un governo, che in quelle condizioni non poteva essere che di coalizione, si è verificata una situazione che, se non fosse tragica per le condizioni in cui versa il paese, potrebbe definirsi comica.
Il centrosinistra secondo il suo leader, il democratico Pierluigi Bersani, vorrebbe un’alleanza con il Movimento Cinque Stelle, che però ha detto subito e perentoriamente di no, come del resto era giusto e normale, dato che esso ha come scopo sociale il rifiuto e l’eliminazione della casta dei vecchi partiti. Il centrodestra si è dichiarato pronto a collaborare col centro sinistra per la realizzazione di alcuni punti programmatici condivisi ed urgenti. Bersani ha ripetutamente risposto no, malgrado alcuni esponenti del suo partito si siano dichiarati pronti ad esaminare ed approfondire la proposta.
Quindi, dopo oltre un mese e mezzo dalle elezioni, il paese continua a vivacchiare, molto male, senza un governo ed in definitiva è già in corso la campagna elettorale in vista di una nuova consultazione che molti ritengono ormai inevitabile. La cosa che stupisce è che molti punti programmatici – peraltro decisamente sulle generali – sembrano essere gli stessi per tutti gli schieramenti: il lavoro, le tasse, lo sviluppo, i giovani, le donne, le lentezze della burocrazia e della magistratura, la riduzione dei costi della politica e simili, senza peraltro che si intraveda alcuna metodologia comune. Su un punto esistono però ampie divergenze persino all’interno dei singoli schieramenti: l’Italia deve restare nell’euro o deve uscirne al più presto?
Senza voler apparire presuntuosi, ci sembra opportuno svolgere alcune considerazioni sull’argomento, non da specialisti, senza complicati algoritmi, ma rifacendoci semplicemente al buon senso e ricordando un po’ la storia di questa tanto innovativa invenzione, l’euro.
L’idea di creare una moneta unica europea fu inclusa nel 1992 nel Trattato di Maastricht, che fissava anche i criteri per parteciparvi. Tali criteri di convergenza erano:
- Rapporto tra deficit pubblico e PIL non superiore al 3%.
- Rapporto tra debito pubblico e PIL non superiore al 60% (Belgio e Italia furono esentati).
- Tasso d'inflazione non superiore dell'1,5% rispetto a quello dei tre Paesi più virtuosi.
- Tasso d'interesse a lungo termine non superiore al 2% del tasso medio degli stessi tre Paesi.
- Permanenza negli ultimi anni nello SME senza fluttuazioni della moneta nazionale
Nel 1999 venne creata la Banca Centrale Europea, e la nuova moneta, l’euro, entrò in circolazione il 1° gennaio 2001 nei dodici paesi inizialmente aderenti, che in seguito crebbero fino a diciassette. Già più volte abbiamo rilevato come l’istituzione di una moneta unica per un insieme di paesi diversissimi tra loro, per dimensione, sviluppo economico, legislazione fiscale e sociale, non sia stata adeguatamente preparata e quindi, a conti fatti, si rivelò un fattore di problemi gravissimi e di crisi.
Tuttavia non si può non rilevare che i criteri fissati dal Trattato non sono mai stati osservati. Basti dire che attualmente il debito pubblico ufficiale della virtuosa Germania supera l’80% del PIL, pur escludendo furbescamente alcune voci che lo farebbero crescere fino a circa il 100%. Non solo nessun provvedimento venne mai preso per far rispettare anche al colosso tedesco le regole liberamente sottoscritte, ma la stessa Germania si atteggia a maestra che bacchetta gli allievi discoli.
Di fronte alla crisi che dal 2008 ha colpito tutto il mondo, ed alla spericolata ed esagerata speculazione finanziaria, del tutto non regolamentata, che si è scatenata, ci si è preoccupati e si è cercato un rimedio nel “rigore”, ovviamente applicato ai cittadini e non ai governi, che hanno continuato nella politica della spesa facile. Per quanto riguarda l’Italia, il rapporto debito/PIL era del 105% nel 1992, anno del Trattato, salì al 113,1% nel 1999, anno della creazione della BCE, ed è giunto al 127% a fine 2012.
E’ chiaro che nessun provvedimento di riduzione dell’esorbitante spesa pubblica venne mai preso dai governi italiani che si sono succeduti in quel ventennio (Amato, Ciampi, Dini, Prodi, Berlusconi, D’Alema, Monti), ma si cercò di frenare l’aumento del rapporto debito/PIL, anche conseguente ad un ristagno del PIL, agendo solo sul fronte del prelievo fiscale, ottimo strumento per frenare ed al limite far regredire l’economia. Attualmente il debito pubblico italiano supera i duemila miliardi di euro, con tendenza a crescere.
Ed ora veniamo all’ipotesi di una uscita dell’Italia dall’euro. Chi la sostiene lamenta il fatto che la BCE non agisce in realtà come le banche centrali degli altri paesi, in quanto non assolve il compito di prestatore di ultima istanza. Ciò sembra indicare il desiderio di poter continuare nella politica tradizionale: spese illimitate, finanziate dall’emissione di nuova moneta, conseguente inflazione, ed infine svalutazione ufficiale per rimettere le cose a posto. In sintesi, la continuazione della sciagurata politica di aumento incontrollato della spesa per discutibili motivi clientelari (possiamo parlare di conflitto di interessi?), corruzione, e simili ignominie per poi svalutare il proprio debito, a scapito degli ingenui che lo hanno sottoscritto.
Se l’Italia – o qualunque altro paese – decidesse di uscire definitivamente dalla moneta unica occorrerebbe evidentemente definire la nuova unità monetaria (una “nuova lira”?), la sua parità con l’euro (supponiamo inizialmente 1 lira = 1 euro), predisporre le nuove monete: diciamo circa un anno di tempo. Dato che i mercati e gli investitori non sono completamente stupidi, essi comprenderebbero immediatamente che la mossa avrebbe come unico scopo quello di continuare il vecchio giochetto: inflazione, svalutazione.
Come si pensa che potrebbe evolvere la situazione? Verosimilmente non solo non si troverebbero più sottoscrittori per le nuove emissioni, se non a tassi esagerati, ma probabilmente chi ne è in possesso cercherebbe in tutti i modi di disfarsi del titoli italiani, con conseguente aumento incontrollabile dei tassi (e dello spread, tanto caro ad alcuni) e diminuzione conseguente del valore di mercato dei titoli stessi. Quindi non resterebbe altra scelta che finanziare le necessità dello Stato, molto aumentate anche per il crescente peso degli interessi e per la necessità di alleggerire il carico fiscale per rilanciare la crescita,, con la stampa di moneta, con conseguente inflazione e successiva inevitabile svalutazione della lira.
A questo punto due sarebbero le strade. O mantenere l’impegno di rimborsare il debito in euro, con un evidente aumento del suo valore reale pari al tasso di svalutazione, oppure rimborsare in lire svalutate, derubando gli investitori di una quota corrispondente al tasso di svalutazione ufficiale della lira. Sarebbe un’operazione onesta, saggia e conveniente? A noi non sembra.
Se si accettano queste conclusioni non resta che rassegnarci a restare nell’euro, pur con tutti i suoi difetti, e cercare di raddrizzare la situazione e risolvere i nostri problemi applicando finalmente alle gestione della cosa pubblica quei criteri di onestà che sono stati finora espressi solo a parole e mai messi in pratica e rispettando le regole liberamente sottoscritte.
Innanzitutto riduzione drastica della spesa pubblica – in primo luogo gli ingiustificati e tanto deprecati costi della politica – cercando di allineare i nostri parametri a quelli europei: eccessivi organici nella burocrazia (per esempio i diecimila forestali in Calabria), nella scuola, eccetera. Adottare misure di rigido controllo del valore degli acquisti pubblici, degli investimenti, delle inesplicabili lungaggini delle procedure amministrative, burocratiche e giudiziarie, sfoltimento della sterminata massa di leggi, regolamenti e simili che bloccano qualsiasi iniziativa e consentono stravaganti, troppo macchinose e spesso arbitrarie decisioni e procedure in ogni materia. Ed infine cercare una soluzione per realizzare finalmente la privatizzazione (non solo a favore dei soliti amici) di almeno una parte dell’immenso patrimonio pubblico, statale, regionale e degli enti locali.
Crediamo che se si cercasse veramente di colpire quello che abbiamo definito “conflitto di interessi” nel settore pubblico e non solo utilizzare il concetto per colpire un avversario politico, una buona parte dei problemi che ci affliggono potrebbe essere avviata a soluzione, godendo finalmente dei vantaggi di appartenere ad un’area monetaria unificata anziché ricavarne soltanto danni e sottosviluppo.
Il Bertoldo
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